Oggi ci occupiamo di una parola: populismo. È l’accusa peggiore, in Italia viene mossa essenzialmente al Movimento 5 Stelle e alla Lega Nord, che si possa fare ad un progetto politico: dare a qualcuno del populista significa dire che i suoi propositi dichiarati servono solo a ottenere il consenso – in genere della parte disagiata della società, a quanto pare sempre più corposa – ma che non hanno alcuna chance di essere tradotti in reali riforme politiche.
I fattori di cui i populisti non tengono conto in genere sono di natura economica e finanziaria oppure, più in generale, è la considerazione della situazione geopolitica internazionale: semplicemente non ci sono i soldi oppure non si può fare perché l’Europa ci chiede altro o gli alleati non sono d’accordo. Altre iniziative di legge populiste potrebbero essere la maggiore e reale tassazione degli introiti delle multinazionali o dei patrimoni. In questo caso la situazione di cui non si rende conto il populista di turno è che i capitali, con un click, si riverserebbero rapidamente lontano da regole che li penalizzano.
La proposta populista per eccellenza è il salario di cittadinanza. Un’altra è porre forti limitazioni all’immigrazione.
Quello che in realtà – ed è la parte che ci interessa di più – definisce come populista una posizione politica è la sua scarsa realizzabilità, caratteristica che ci costringe a rubricarla immediatamente come sparata elettorale, irresponsabile perché crea speranze destinate a essere deluse.
Ma dentro la dialettica tra populismo e chi lo denuncia c’è l’evidente impossibilità della politica a rimettere mano ai rapporti di forza sul campo: in genere qualcosa che è Populista non può essere realizzato perché non è in linea con i programmi di chi comunque, chiunque vada al governo, ha una fetta importante del potere (economico e finanziario) in mano.
Allora hanno ragione i populisti? Dovrebbero essere più coerenti e dire come si fa a cambiare il sistema attuale di distribuzione di potere e reddito. Ma la risposta, forse, li spaventa.