Quando qualcuno mi parla di progetti, non so voi, ma io ho una crisi di rigetto, come se un corpo estraneo si fosse insinuato nel tessuto delle azioni quotidiane per conferire ad esse il sapore inconfondibile del meraviglioso mondo del marketing: il nulla.
“Partecipo ad un progetto” è una vox media perfetta per descrivere le molte situazioni del lavoro improduttivo senza scendere in dettagli scandalosamente significativi della realtà materiale delle differenze tra classi: può significare che ci si sta dedicando a nobili e lucrative attività umanitarie, finanziate in virtù di clientele e appartenenze, oppure che si è l’ultimo anello di una catena in cui si produce a salario zero lavoro culturale finanziato e venduto da altri, ma ottenendo come emolumento la visibilità, con conseguenti evidenti difficoltà di pagarsi da vivere.
Il progetto è ciò che è sempre proiettato in avanti, caratteristica che tende ad attutire il terrore del futuro, al solo costo di distruggere il presente.
I soli progetti che producono reddito, al netto di quelli degli architetti – e nemmeno sempre – sono quelli finanziati pubblicamente: in questo caso basta trovare un amico in una posizione chiave nel gestire i soldi di tutti e una scusa plausibile per accaparrarseli.
Non ho mai visto un “progetto europeo” produrre effetti significativi che non fossero quelli sulle tasche di chi li gestiva. In compenso ne ho letti molti il cui linguaggio denunciava un desiderio folle che il lettore non capisse alcunché di ciò che vi era scritto, per evitare che qualcuno potesse chiederne conto.
Quindi a cosa servono? Credo che quando qualcuno vorrà coinvolgervi in un progetto, cercare di interpretare in termini razionali le sue intenzioni sia fatica rivolta in una direzione sbagliata. In fondo il progetto è un sacramento della religione i cui sacerdoti sono i manager. Solo se si tratta di gestire un progetto – invece di fare qualcosa – il ruolo dirigenziale spicca in tutta la sua aura mistica.