A proposito dei processi hauntologici che coinvolgono il pop contemporaneo e il rapporto tra questa filosofia musicale con le culture digitali, lo scrittore e critico Simon Reynolds ha affermato nel suo saggio Retromania che il problema della musica dell’ultimo decennio è la rinuncia alla proiezione verso il futuro. L’essere pigramente tradizionale, nostalgica, in una parola retrò, confinata nell’affascinante quanto retorico paradosso che, nonostante le potenzialità delle nuove tecnologie digitali, il punto di partenza per la realizzazione di note realmente innovative non può prescindere dal recupero dei suoni e dalla memoria del passato.
L’hauntology si fonda tanto sul potere effimero quanto sulla connaturata fragilità del concetto di memoria applicato alla musica, reso ancora più evanescente dalle tecniche di registrazione intese come inutile tentativo di fossilizzazione che non tengono conto dei naturali processi di deterioramento analogico. Negli ultimi anni questo senso di perdita ha assunto una sua specificità culturale nella scuola britannica, che per prima ha esplorato l’onirica nebulosa parallela dell’hauntology. Utilizzando le opportunità del sampling in maniera originale e creativa, associando materiali di archivio, spesso inediti o dimenticati, su tracce ritmiche propulsive di derivazione post-rock o sulle frequenze sfiligranate e opache di un certo ambient-pop con influenze kosmische e sci-fi. Il tutto dando vita a un informe pseudo-genere battezzato dal critico scozzese David Keenan come hypnagogic pop.
L’avvento della televisione di stato inglese, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ha lasciato un’impronta indelebile nella memoria dei bambini dell’epoca che hanno vissuto per primi l’esperienza traumatica dell’inconscio collettivo e dei ricordi condivisi. Negli ultimi anni etichette discografiche come Ghost Box e Mordant Music hanno definito un codice hauntologico che ha come tratto comune l’utilizzo esclusivo di voci britanniche, lugubri, atonali e decontestualizzate, estrapolate da documentari pre e post-bellici, materiali di propaganda, programmi educational per bambini, colonne sonore dei primi polizieschi e horror vintage. Sono le voci di un’altra epoca, legate tra loro da un senso di nazionalità, matrice dell’identità collettiva e al contempo testimonianze della proiezione di un’immagine che la Gran Bretagna amava proiettare attraverso il Public Service Broadcasting e la sua mission istituzionale: informare, educare, intrattenere.
Il concept, ideato dal duo londinese formato dal polistrumentista J. Willgoose Esq. e del batterista Wrigglesworth, entrambi geniali produttori elettronici e infaticabili cercatori di suoni e immagini, attinge al vasto immaginario hauntologico ridefinendone i canoni con un solo obiettivo dichiarato: insegnare la lezione del passato attraverso la musica del futuro.
Inform – Educate – Entertain, l’album d’esordio dei Public Service Broadcasting amplifica le frequenze del tubo catodico, le media e le modula con ironia attraverso l’approccio documentaristico e l’utilizzo dosato del cut&paste in un sound futurista, di inclassificabile datazione, dal connotato vagamente cinematico e dal voluto effetto ipnotico. Il loro obiettivo non consiste né nel tentativo velleitario di recuperare un passato indecifrabile né tantomeno nella presunzione di decodificare i presagi del futuro ma si limita, come un’installazione d’arte contemporanea, a rappresentare il presente: divertire, dunque, e, con l’occasione, anche informare ed educare.
Il linguaggio sonoro dei PSB è un’alchimia perfettamente bilanciata, un’apparente continuo botta e risposta tra sample ed esecuzione musicale, una giustapposizione di citazioni capace di condurre l’ascoltatore in un adrenalinico vortice emozionale. Dall’indie-rock sinusoidale di Signal 30 all’ambient downtempo di Spitfire, passando per l’art rock di Lit It Up, le atmosfere space-funk anni ’80 di The Now Generation e il crescendo prog di Late Night Final, nel collage-rock sperimentale del combo londinese i movimenti sono scanditi dall’interplay quasi perfetto tra basso, batteria, chitarra elettrica e banjo che si fondono con i synth e le drum machine.
Una formula originale e innovativa, dal punto di vista della creazione e della resa sonora, che trova la sua dimensione ideale nello showcase A/V che la band ha portato in tour mondiale facendo tappa anche in Italia, il 26 ottobre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Una performance densa di efficace sperimentazione, dove l’arte digitale diventa euforica, incontenibile e vibrante, evitando il rischio di noiose reiterazioni grazie alla sincronizzazione con i visuals realizzati con frammenti di suggestivi filmati d’archivio della BBC: dalle prime trasmissioni radio-televisive degli anni ’40 ai documentari sulle scalate dell’Everest del decennio successivo.
Se al primo ascolto il linguaggio post-analogico dei Public Service Broadcasting ci ha incuriositi, la performance audio-visiva, della quale si sono resi protagonisti, ha confermato la loro personalità, completando i connotati del loro stile etereo e disegnando la seconda faccia di un prisma artistico ancora tutto da scoprire.