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  • Comunicazione

Quando un testimonial fa flop. Ma è un boom. Anna Tatangelo per LILT.

Anna Tatangelo è il volto della campagna LILT FOR WOMEN, lanciata come ogni anno dalla Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori. Con la head “Fai prevenzione: proteggilo anche tu!” la cantante, fotografata in un abbraccio protettivo a seno nudo, invita tutte le donne a proteggersi dal big killer numero uno per il genere femminile, il tumore al seno.

L’abbraccio simboleggia un gesto d’amore verso se stesse: “Mi voglio bene, per questo mi prendo cura della mia salute”, e un invito a tutte le donne a fare altrettanto.

Questo, almeno, è ciò che la LILT voleva comunicare. Ma a giudicare dalle forti e immediate reazioni che la campagna ha scatenato, si direbbe che il messaggio percepito sia stato un altro.

Un coro di protesta tutto al femminile si è sollevato prima di tutto in rete: la cantante appare troppo sexy, svilisce il messaggio e offende le donne. La campagna è apparsa sulla pagina Social Media Epic Fails. Alcune blogger molto seguite, come Selvaggia Lucarelli, non hanno usato mezzi termini per criticare personalmente la testimonial: “Se hai le tette rifatte per ragioni puramente estetiche, forse non sei la persona più adatta a sostenere la causa e la sensibilità di donne che le tette se le sono dovute ricostruire perché asportate.”


Ancor più grave, è il fatto che persino alcune delegazioni locali della stessa LILT si siano rifiutate di affiggere i manifesti, preferendo utilizzare quelli delle vecchie campagne. E una petizione è stata inviata al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin per chiedere il ritiro della locandina.

Come donna, non mi risulta particolarmente difficile comprendere le ragioni di chi si è sentita – per usare un eufemismo – poco rappresentata dalla Tantangelo. Come esperta di comunicazione, i risvolti della vicenda che stuzzicano il mio interesse sono invece altri.

La campagna può definirsi davvero un epic fail? E se sì, perché? La scelta del testimonial è stata un errore? Quali possono essere state le motivazioni che hanno indotto la LILT a puntare su un personaggio come Anna Tatangelo?

Impadronirsi del mito del momento e sfruttare gli effetti del consenso popolare per affidargli “l’affermazione d’autorità” a beneficio di un prodotto o di un messaggio è legge antica della comunicazione.

Basta la notorietà o serve il valore aggiunto della pertinenza?

Un testimonial va selezionato con cura e la sua immagine gestita con le dovute cautele, perché egli vive, agisce e comunica anche al di fuori di quel messaggio, e pertanto nello spazio anche di un singolo annuncio si possono innescare meccanismi imprevedibili. Se la campagna di comunicazione non ha un obiettivo commerciale ma di sensibilizzazione, la cautela diventa ancora più importante.

Se le variabili imprevedibili sono tante, la regola aurea da tenere presente è una sola: il testimonial deve essere congeniale al messaggio e in sintonia col target di riferimento. 

Stando alle critiche, con i suoi 28 anni, Anna Tatangelo è stata giudicata troppo giovane per il target al quale la campagna di sensibilizzazione era rivolta. Il suo aspetto esteriore è stato percepito in qualche modo come disturbante, e quindi incapace di rispecchiare le donne destinatarie del messaggio.

Ma sensibilizzare un target più giovane per educarlo alla corretta prevenzione è un chiaro obiettivo della LILT. E, a ben guardare, una giovane donna e mamma curata e attenta alla propria salute dovrebbe essere una testimonial ideale per un messaggio di prevenzione, specialmente se la sua popolarità è alta fra i segmenti del target più cruciali, come la popolazione femminile del sud Italia, dove lo screening fa più fatica a decollare.

Infine, escludere una testimonial potenzialmente valida perché non ha un seno naturale sarebbe come sancire un tabù in un contesto dove invece è bene che si metta da parte ogni tipo di imbarazzo.

A mio avviso, non è nel personaggio che si devono ricercare le ragioni della polemica, quanto nel trattamento creativo, se così si può chiamare.

Definito ciò che si desidera comunicare (il messaggio), e chi se ne farà portavoce (il testimonial), si deve infatti scegliere anche come comunicarlo efficacemente.

E per uno stesso messaggio, le possibili varianti del visual e del copy sono pressoché infinite.

E se la testimonial fosse apparsa vestita sulla locandina?

Seppur con il soggetto ritratto nudo, lo stesso gesto dell’abbraccio poteva essere rappresentato in modo diverso?

All’estero le campagne di nudo per sensibilizzare sullo stesso tema si sprecano. Ma lo stile è tutto.

E l’utilizzo del bianco e nero, che attutisce, smorza, spegne, conferisce serietà ed importanza? Usato in contrapposizione al colore, ridefisce i pesi.


Quanto all’headline, quel “proteggilo anche tu!” risulta ben poco credibile se il gesto dell’abbraccio sembra più finalizzato a sollevare delle belle forme che a prevenirne la malattia.

Non sarebbe meglio allora provocare fino in fondo?

Rivendicare il proprio corpo. Aggredire la malattia, magari nominandola, una volta tanto: “Giù le mani dalle mie tette, CANCRO.”

Stabilire oggi se la campagna LILT sia un epic fail o meno, è difficile. Gli effetti di una campagna di comunicazione si misurano nel tempo.

Certo l’utilizzo del testimonial sbagliato mette in moto a volte un meccanismo perverso: il personaggio che dovrebbe conferire notorietà al messaggio finisce invece per offuscarlo, al punto da vampirizzare la comunicazione e diventare più importante del messaggio stesso.

Ma se invece la polemica avesse amplificato il messaggio?

L’immagine della campagna dalla pagina Facebook ufficiale della LILT piace a 15 persone ed è stata condivisa 39 volte.

Dalla pagina di Selvaggia Lucarelli, 10.679 volte.

Qui, probabilmente, non ne avremmo mai parlato.

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