Ho visto la morte in faccia e le ho scritto una canzone.
In questi giorni di gennaio 2023, tantissimi hanno ricordato, come accade regolarmente da sei anni, la morte di David Bowie, che il 10 gennaio 2016 arrivò come uno shock, ma non solo perché l’artista era stato molto attento a non lasciar trapelare notizie sul suo stato di salute. In quei giorni l’attenzione su Bowie era notevole.
Esattamente due giorni prima, in concomitanza con il suo sessantanovesimo compleanno, era uscito un nuovo album, Blackstar, che aveva suscitato interesse e ammirazione, come del resto il precedente The Next Day, che l’aveva riportato al centro della musica e dei discorsi come non era accaduto con gli altri dischi degli anni 2000.
In effetti Bowie ebbe il raro privilegio di poter organizzare, orchestrare e dirigere la sua uscita di scena: per promuovere Blackstar fu realizzato, dal fotografo Jimmy King, l’ultimo servizio fotografico su di lui, che lo vede assertivo, sorridente, elegantissimo (in un abito dello stilista newyorkese Thom Browne).
E la didascalia recitava:
Why is this man so happy? Is it because it‘s his 69th birthday or that he has released his 28th studio album today and it’s a corker?
(Perché quest’uomo è così felice? Perché è il suo sessantanovesimo compleanno o perché ha fatto uscire il suo ventottesimo album in studio ed è una bomba?).
Questo livello di teatralità, di showmanship estrema, è probabilmente irraggiungibile da chiunque altro, però ci sono stati altri casi notevoli in cui un artista sapeva di avere i giorni contati e allora si è messo a fare per un’ultima volta quello che sapeva fare meglio: scrivere canzoni, cantarle, suonarle.
Un esempio fu Johnny Cash, già in condizioni di salute molto precarie quando nel 2002 registrò American IV: The Man Comes Around, quello che contiene tra l’altro le sue versioni di Personal Jesus dei Depeche Mode e Hurt dei Nine Inch Nails.
Di quest’ultima, in particolare, Trent Reznor pensava che sulla carta fosse una trovata un po’ artificiosa, ma quando ascoltò il risultato si dovette ricredere e commentò: “Questa canzone non è più mia”.
E pochissimi giorni prima di Cash, nel settembre 2003 era morto il cantautore americano Warren Zevon, noto più che altro per gli ululati di Werewolves Of London, ma in realtà autore di altissimo livello, con qualche tendenza al macabro e al sarcastico che non smentì negli ultimi mesi di vita.
Dopo che gli era stato diagnosticato, nel 2002, un tumore in fase terminale, tornò per l’ennesima volta a essere ospitato in tv da David Letterman, che era il suo più grande fan in assoluto.
Lo presentarono suonando I’ll Sleep When I’m Dead, e nell’intervista ammise:
“Forse è stato un errore tattico non andare da nessun medico per vent’anni”.
E per non smentirsi disse che sperava di campare abbastanza per vedere il nuovo film di 007, Die Another Day, desiderio che in effetti si avverò.
Senonché nell’autunno 2002 gli avevano dato pochissimi mesi di vita, ma dopo un po’ era ancora lì, e così finì di registrare l’album The Wind, con tantissimi amici famosi ad accompagnarlo, da Jackson Browne a Bruce Springsteen, da Emmylou Harris a Billy Bob Thornton, e parecchi altri.
Il disco conteneva la versione più reale che si sia mai sentita di Knockin’ On Heaven’s Door, e si chiudeva appropriatamente con l’epitaffio di Keep Me In Your Heart.
Ci sono altri esempi prestigiosi di artisti che hanno realizzato la loro lapide sonora prima di morire, come Jacques Brel con Les Marquises (1977), il nostro Giorgio Gaber con Io non mi sento italiano (2003), il grandissimo Leonard Cohen con You Want It Darker (2016), ma forse il mio preferito è stato Lee Hazlewood.
Hazlewood era autore e cantante di genio, che con molto understatement definiva la propria musica “cowboy psychedelia” o “saccharine underground“. La sua fama era soprattutto arrivata come autore, produttore e direttore musicale per Nancy Sinatra, nel periodo del suo massimo successo, con formidabili duetti come Some Velvet Morning, Summer Wine e altre ancora, tra cui l’immortale These Boots Are Made For Walkin’, che all’inizio Hazlewood avrebbe voluto cantare personalmente, ma Nancy obiettò giustamente che non le pareva una canzone adatta per un uomo, così la incise lei, con il risultato che sappiamo.
Anche Lee Hazlewood ricevette le diagnosi di un tumore in fase terminale, nel 2005, e come gli altri personaggi che abbiamo ricordato si accinse a registrare un album, sapendo che sarebbe stato l’ultimo. Ma invece di manifestare, per così dire, sobria e virile rassegnazione, scelse una strada diversa, quella della stravaganza, a partire dal titolo Cake Or Death, frase mutuata dal comedian inglese Eddie Izzard (ho usato il maschile, ma Izzard è decisamente genderfluid).
Cake Or Death riesce nell’impresa di essere bizzarro e toccante allo stesso tempo, eccentrico, sentimentale e assurdo, senza tradire lo sprito di Hazlewood, che fa cantare una brevissima versione di Some Velvet Morning alla nipotina Phaedra, non prima di averci proposto la melodia originale di Boots.
Ma alla fine è quasi serio, nel proporre il suo punto di vista in T.O.M. (The Old Man), che è pronto ad andarsene, e assapora l’eternità, e si chiede come sarà questa eternità:
And have you seen the old man? He’s ready to go. And his tongue, his tounge tastes forever, and his mind wonders what forever will bring.
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