30 anni e un fascino irresistibile, amori tormentati con uomini più giovani destinati a diventare stelle del firmamento come Quentin Tarantino, Jim Jarmush, Robert Rodríguez o Christopher Nolan, un padre dal quale prende il nome e quel misto di libertà, follia e determinazione che ne ha fatto un pezzo importante di storia del cinema non solo americana; 30 anni di viaggi on the road, di storie, di facce, di scarponi da trekking, occhiali scuri e caffè bollenti; 30 anni di incontri per la vita tra il primo e il secondo tempo, di relazioni iniziate male e finite peggio, 30 anni di rivoluzioni umane e tecnologiche.
Era il 1984 quando al Sundance Institute, organizzazione no profit fondata da Robert Redford solo tre anni prima – dal nome di uno dei personaggi più celebri interpretati dall’attore, il pistolero gentiluomo Sundance Kid in Butch Cassidy – viene affidata la direzione artistica e organizzativa dello Utah/United States Film Festival, nato nel 1978 allo scopo di dare visibilità ad autori di cinema indipendente. In questi decenni, critici, giornalisti e detrattori di sorta ne hanno profetizzato il declino, come se la voluta estraneità a certe logiche commerciali, di budget e di mezzi, renda il cinema e i suoi derivati troppo cagionevoli per restare “indie” a lungo. Naturalmente così non è stato a giudicare dai numeri di questa trentesima edizione che conta, tra gli altri, ben 54 autori esordienti e 7000 mila presenze, anche se, bisogna ammetterlo, gli anni 70, con il loro potenziale di rottura e sperimentazione, sono ormai lontani, nonostante la volontà del suo fondatore di restare saldi a quegli ideali: “cerchiamo di scegliere film che non avrebbero altre possibilità di arrivare al pubblico, cerchiamo di dare spazio a voci alternative”.
Nel suo trentesimo anno il Sundance ha un programma talmente denso ed eterogeneo, con sezioni che accolgono registi e sceneggiatori da ogni parte del mondo, che sembra impossibile orientarsi, se non fosse che scorrendo la lunga lista di titoli dentro e fuori dalla competizione, c’è un elemento che ricorre quasi costantemente e che la rende per questo un’edizione davvero unica: la musica. È, per usare le parole del suo direttore John Cooper, una vera e propria “celebrazione della musica anche se in forme e approcci diversi”. Quella che il teorico del cinema Bèla Balàzs chiamava la terza dimensione – a completare il viaggio sinestetico dello spettatore cinematografico – diventa in questo festival l’oggetto e il soggetto della narrazione filmica, strumento e pretesto per raccontare i turbamenti dell’animo umano, per esplorare nel profondo il senso dell’esistenza e delle nostre identità, così frammentate e sospese. Un meraviglioso espediente emotivo e linguistico che ci ricorda, semmai ce ne fossimo dimenticati, di quel connubio perfetto, di quell’ ”effetto”, come lo chiamava Stanley Kubrick, che dura oramai da più di un secolo, da quando, agli esordi del cinematografo, la musica era solo un piccolo trucco per coprire il rumore del proiettore e il chiacchiericcio del pubblico in sala. C’è il jazz, ad esempio, a fare da contrappunto sonoro ed emozionale nel film Low Down di Jeff Preiss – prodotto non a caso da due musicisti, Anthony Kiedis e Flea dei Red Hot Chili Peppers – storia vera e drammatica del celebre pianista Joe Albany che tra gli anni 60 e 70 divise il palco con i giganti, da Charlie Parker a Miles Davis, e la sua vita tra una lunga serie di matrimoni falliti e un inferno di eroina. Basato sulle memorie della figlia undicenne, interpretata da Elle Fanning, la pellicola è una sorta di racconto di formazione, la fotografia fumosa di un percorso di crescita, doloroso per natura, e di una vita caotica, frenetica, sincopata, improvvisata, esattamente come il jazz.
Di musica si parla anche in altri due film in competizione, Whiplash di Damien Chazelle e Song One di Kate Barker – Froyland. Nel primo, che ha aperto il Sundance lo scorso 16 gennaio, Miles Teller è un giovane batterista di talento alle prese con uno spietato insegnante di musica, un credibilissimo J. K. Simmons, che lo spinge a raggiungere la perfezione – l’obiettivo è l’ammissione in una delle orchestre jazz più illustri d’America – anche a costo di perdere la propria umanità. Non a torto qualcuno lo ha definito il “Full Metal Jacket alla Julliard” in riferimento alla celebre scuola di arti, musica e spettacolo di New York in cui le lezioni assomigliano a dei veri bootcamp militari. Se nel film di Chazelle la musica è un’ossessione che indurisce l’anima e fa sanguinare le mani, in Song One diventa il filo magico che unisce destini diversi e persone sconosciute, un mezzo per guarire e riscoprirsi: “ero davvero affascinata dall’idea del potere connettivo della musica e da come questa riesca ad unire le persone in modi imprevedibili senza che loro neanche lo sappiano” ha spiegato la giovane regista al suo primo lungometraggio. È il viaggio di Franny, sullo schermo Anne Hathaway, attraverso i luoghi, le persone e le canzoni che il fratello Henry, in coma dopo un incidente, amava. In questo viaggio esistenziale e musicale Franny incontra James – l’attore e musicista Johnny Flynn – idolo di Henry del quale finisce per innamorarsi. La regista ha girato e registrato tutte le performance musicali dal vivo, cercando di cogliere le vibrazioni, i colori e gli odori di ogni singolo posto in cui si suonava, proprio per afferrare l’aspetto più intimo ed emozionale della musica.
Tra le anteprime mondiali grande interesse ha suscitato il film dell’irlandese Lenny Abrahamson, Frank, storia di un giovane musicista ambizioso e dell’incontro ai limiti del surreale con l’eccentrico Frank Sidebottom, interpretato da un instancabile Michael Fassbender, alter ego del comico e musicista inglese Chris Sievey che nella prima metà degli anni 80 si presentò in tv indossando una gigantesca testa di carta pesta. Anche l’attore William H. Macy, al suo esordio alla regia con Rudderless, sceglie la musica per raccontare il dramma di un padre che perde suo figlio. Ancora, l’agonia lacerante della perdita porta all’agnizione di se, scardinando ogni certezza su chi siamo e su chi sono davvero le persone che crediamo di conoscere. Quando Sam scopre il talento musicale del figlio tra testi e nastri registrati nascosti in una scatola decide di mettere insieme una rock band e di vivere quel sogno al suo posto. Neanche Jim Jarmush poteva esimersi dal raccontare, anche se a latere, la storia di un musicista underground, Adam, vampiro decadente, follemente innamorato da secoli della sua Eve. I protagonisti di Only Lovers Left Alive, gli emaciati eppure bellissimi Tilda Swinton e Tom Hiddleston, sono due vampiri simili a due rockstar dall’aria stropicciata di chi ha bevuto troppo e dormito poco in fuga dagli zombi/umani che governano il mondo. Continuando a scorrere le pellicole, la musica si ritrova anche nella sezione Doc, con un titolo tra tutti: il documentario di Michael Rossato – Bennett, Alive Inside: A story of Music & Memory, girato in tre anni all’interno di una casa di cura dove si assistono pazienti affetti da demenze neurodegenerative come l’Alzheimer. Dan Cohen è un assistente sociale, Marylou invece è una donna malata di Alzheimer, sta ascoltando I Get Around dei Beach Boys, balla e canta, come se quella musica l’avesse risvegliata, riconnettendola al suo passato e, di conseguenza, anche al suo presente.
Tra i film della sezione World Cinema Dramatic Competition, va segnalato God Help The Girl, il musical dello scozzese Stuart Murdoch, frontman del gruppo indie pop Belle and Sebastian, realizzato attraverso la piattaforma di crowdfunding Kickstarter (la stessa utilizzata da Zack Braff per il suo Wish I Was Here). La ragazza del titolo è Eva, fragile ed emotivamente instabile, decisa ad inseguire il sogno di una vita: diventare una cantautrice. È il racconto delle infinite possibilità e delle speranze di cui ci carichiamo inseguendo i nostri desideri e aspirazioni, quando tutto ciò che siamo e saremo è racchiuso in un incontro, in un’estate assolata, in un viaggio. La musica qui non si limita ad essere contenuto, ma diventa anche forma. Questi film non è esauriscono, come è ovvio, l’offerta del festival, ma ci permettono di riflettere sulla forza comunicativa della musica e sulle possibilità narrative che essa offre. Può essere una mera scelta estetica, una pennellata glam rock sul corpo di un attore, il fumo bohèmien di un jazz cafè, la fotografia sbiadita di un road movie, il tappeto di note che accompagna un abbraccio, la parafrasi di un addio. Può essere il cuore del racconto, il segreto di un figlio ad un padre, di un fratello alla sorella, il rifugio di un amante inconsolabile o di un genitore fallito, la strada che conduce alla salvezza o, di contro, alla disperazione. Può essere la chiave per ritrovare se stessi, quando tutto, i nostri ricordi, le nostre emozioni, sono perdute per sempre o essere lo specchio che ci dice sempre la verità, anche quella che non vogliamo ascoltare, e nel quale riflettiamo noi stessi. Di certo, nonostante le forme e le direzioni diverse che le vengono attribuite, la musica si conferma il territorio perfetto, senza staccionate o bandierine a limitarne i confini, dove piazzare una macchina da presa e urlare “action!”
Chiara Ribaldo/ Bake Agency