Il cinema italiano di questa ottava edizione del festival si muove compulsivamente; dal film di genere a quello autoriale le prova tutte nel tentativo di raccontarci di questo tempo grigio, in cui la crisi non è, come ovvio, solo economica, si sforza di rappresentare le vite di uomini e donne comuni che si arrangiano tra lavori e amori precari in un paese che non concede nulla, anzi sottrae progressivamente. È uno sforzo che però riesce solo a metà, non ce la fa, questo nostro cinema, a fotografare il presente senza cadere nello stereotipo, senza inciampare nell’autocompiacimento o peggio senza soffocare nell’imitazione di altri modelli, primo tra tutti quello statunitense.
Capita allora di trovarsi di fronte a progetti audaci, diversi, che tuttavia stentano a decollare come se mancasse sempre qualcosa. Forse, ipotizziamo, a mancare è quella distanza di sicurezza che permette all’osservatore/autore di raccontare il naufragio senza farsi travolgere dalle onde. L’opera prima di Fabio Mollo, Il Sud è niente, presentato nella sezione Alice nella città e reduce dal successo al Toronto Film Festival, è senza dubbio una pellicola coraggiosa.
“Il Sud è niente e niente succede”, questo viene ripetuto di continuo a Grazia, l’esordiente Miriam Karlkvist, adolescente ribelle con l’aspetto di un ragazzo, tormentata dai suoi 17 anni e dalla morte del fratello maggiore, Pietro, di cui non sa “niente”, perché niente le viene detto. Il padre Cristiano, un bravissimo Vinicio Marchioni, sopravvive a se stesso in una Reggio Calabria che odora di pesce, incenso e mafia. I protagonisti vagano, immersi nella fotografia suggestiva di Debora Vrizzi, inseguendo il fantasma di Pietro, metafora di redenzione, coscienza, perdono. L’agnizione arriva nel finale, dopo il viaggio dell’eroina dentro se stessa, a guarire ogni male.
La pellicola di Mollo, molto applaudita e osannata dalla critica, vuole parlare di mafia, formazione, realismo, magia, vuole rappresentare gli emarginati, la ribellione e un Sud che, nelle sue stesse parole, “non è solo un sud geografico, ma l’indicazione di un confine più ampio”. Vorrebbe omaggiare il cinema verità di Ken Loach e il potere immaginifico dei film di Emanuele Crialese, ma forse c’è troppo e non abbastanza in quest’opera prima. La narrazione risulta in alcuni passaggi claudicante, a volte persino confusa, mentre la messa in scena eccessivamente didascalica mortifica i personaggi, che pure avrebbero potuto vestire il racconto in modo più efficace. Il timore di non essere compresi, l’urgenza di spiegare tutto finisce per non lasciarci nulla ed è, come sempre, un peccato.
Di tutt’altro tono è, invece, il film in concorso di Guido Lombardi Take Five (da un classico del jazzista Dave Brubeck), uno “spaghetti gangster” napoletano con un cast di straordinari caratteristi dal passato movimentato, tra cui spiccano Peppe Lanzetta e Salvatore Striano. Carmine, O Sciomèn, Sasà, Ruocco, e Gaetano – un idraulico con il vizio del gioco, un gangster depresso, un fotografo di cerimonie in attesa di un cuore nuovo, un ex pugile, un ricettatore – sono la strana “paranza” criminale – 30 anni di galera in cinque – di questa pellicola di genere a metà tra I soliti ignoti, Le Iene e Rapina a mano armata. La fragile alleanza va in frantumi, quando i soldi spariscono e il super boss ‘o Jannone bussa alla porta.
Gli omaggi al cinema, italiano e americano di genere, sono davvero tanti, a partire dalle musiche (ogni personaggio ha la sua personalissima colonna sonora) che citano Morricone, la tromba di Rocky Balboa, il tema di Gloria di John Cassavetes, le chitarre elettriche e i ritmi sostenuti di Lock & Stock di Guy Ritchie.
Guido Lombardi – che ha esordito nel 2011 con Là-bas – Educazione criminale – racconta la criminalità con la leggerezza del gangster movie e in conferenza stampa confessa: “Mi ero stufato di queste storie che raccontano Napoli o la criminalità in modo realistico, volevo provare ad usare la finzione. Gli attori sono stati all’altezza del compito, nonostante il loro background fosse quello del cinema realista di Martone o di Sorrentino (…) Ho scritto la sceneggiatura pensando proprio a loro, mi hanno proposto nomi internazionali, ma senza Peppe, Salvatore e gli altri non avrei fatto il film. La storia sono loro.”
Ecco il problema di un film comunque godibilissimo e che vi consigliamo: la forza degli attori finisce per schiacciare la storia, come era successo anche in Ocean’s Eleven di Steven Soderbergh, la caratterizzazione dei personaggi e, ipotizziamo, anche la perfetta sintonia durante le riprese, fagocitano la trama, lasciando allo spettatore molte aspettative e un ottimo inizio.
Ma forse chiediamo troppo!
Chiara Ribaldo|Bake Agency