Twist, bombe a mano e tric e trac.
Ogni storia che ci viene raccontata è un viaggio, su questo Christopher Vogler ci ha costruito una fortuna e, probabilmente diverse case sulle dorate colline hollywoodiane. Un viaggio metaforico, naturalmente, di rivelazione del sé, di trasformazione spirituale. La direzione di questo cambiamento è di solito etica, comporta per chi lo compie l’attraversamento di confini mentali e la risoluzione di conflitti interiori, il superamento di prove sempre più ardue e intime.
Alla fine del viaggio, l’agente che muove la storia e guida l’azione, l’eroe, può fare ritorno al mondo ordinario portando con sé l’elisir di una nuova verità, di una nuova esperienza, di una nuova solida identità da condividere con gli altri. Così finisce il terzo e ultimo atto del viaggio dell’eroe secondo Vogler, che a piene mani aveva pescato dagli studi dell’antropologo Joseph Campbell.
Che accade, però, se l’eroe non può o non vuole più tornare, o, se tornando, il suo animo è spezzato, abbruttito, se non c’è stata catarsi, resurrezione, trionfo, alcuna ricompensa per il sacrificio?
I’m the one who knocks.
Quattordici anni fa Vince Gilligan aveva preso Walter White un mite, sciatto e vessato professore di chimica, padre di famiglia malato di cancro e lo aveva trasformato in Heisenberg. Un villain del narcotraffico in grado di uccidere senza pietà chiunque avesse ostacolato il suo personalissimo viaggio verso la vendetta, più simile all’attraversamento on the road di Paura e Disgusto a Las Vegas di Hunter S. Thompson, che al percorso di purificazione di Bruce Wayne in Tibet prima di diventare “l’eroe che Gotham merita, ma non quello di cui ha bisogno adesso”. E noi avevamo goduto tantissimo, perché, lo diceva Bud Spencer a Terence Hill in quel capolavoro che è Chi trova un amico, trova un tesoro (Sergio Corbucci,1981):
Non c’è più cattivo di un buono quando diventa cattivo.
Breaking Bad ci ha insegnato come può essere eccitante, incredibile, pericoloso, ovviamente doloroso e solitario, il viaggio di un eroe che sceglie la cattiva strada, di essere l’’uomo che bussa, come confessa Walter alla moglie in una sorta di delirio di onnipotenza:
Non sono in pericolo, Skyler: io sono il pericolo. Un tizio apre la porta e si becca un proiettile, è così che mi vedi? No. Sono io quello che bussa.
La trasformazione dell’eroe
Ecco, con The Bad Guy, la nuova serie tv Amazon Prime, scritta da Ludovica Rampoldi, Davide Serino e Giuseppe G. Stasi, che è anche regista insieme a Giancarlo Fontana, siamo di fronte a quel medesimo viaggio al contrario in cui un personaggio buono, eticamente solido (almeno così credevamo), alla fine si sfalda, finendo per ricomporsi in una nuova forma, non solo estetica, ma etica e identitaria. La costruzione del cattivo è forse il viaggio più straordinario e stimolante cui da spettatori siamo chiamati ad assistere e di certo quello che richiede al pubblico più coraggio, complicità, follia, insolenza e insubordinazione.
Siamo gli allievi perfetti di una delle più straordinarie lezioni di Julio Cortázar che ammetteva senza troppa vergogna di detestare quel lettore o quello spettatore che “sfrutta il morbido cuscino del godimento edonista o dell’ammirazione per il genio”, invece di perdersi nelle maglie della narrazione, di lasciarsi guidare dalle tracce di senso o, come spesso accade, dai suoi tranelli. Tempo fa, in un mio saggio su Black Lodge. Fenomenologia di Twin Peaks, a cura di Mario Tirino e Adolfo Fattori (Avanguardia 21, 2021), avevo scritto che se ogni opera, nel suo farsi, immagina un pubblico, lo disegna e gli assegna un posto, non è detto che questo sia sempre rassicurante o adeguato a interpretare il mondo presentato. Credo che lo stesso, si possa dire per questo capolavoro seriale.
The Bad Guy: la serie tv di mafia e pop culture.
Nino Scotellaro, un Luigi Lo Cascio che si conferma attore di straordinario talento, è un magistrato siciliano dal carattere irascibile e dai modi investigativi poco ortodossi ma efficaci, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia e alla cattura del capo dei capi, il boss latitante Mariano Suro, mandante di centinaia di omicidi, tra cui quello del giudice Bray, mentore e padre della moglie Luvi, un’eccellente Claudia Pandolfi.
Quella che Vogler chiamerebbe “chiamata all’avventura”, ma che qui finisce per innescare un incredibile cortocircuito morale, è l’accusa di collusione mafiosa, una macchina del fango che finisce per travolgerlo, trasformandolo in uno di quei mostri che ha sempre combattuto.
E quando il fato e il Ponte sullo Stretto gli offrono l’occasione di fuggire, Nino Scotellaro decide di diventare Balduccio Remora, un bad guy, sceglie per sé una resurrezione tutta particolare, un inizio che è già una fine, la sua.
Colapesce e DiMartino cantano un motivetto insopportabilmente allegro all’interno di un parco acquatico immaginario a Lentini, in una Sicilia realissima, eppure distopica, che nelle atmosfere ricorda per certi versi la Los Angeles postmoderna del William Shakespeare’s Romeo + Juliet di Baz Luhrmann. C’è il Ponte sullo Stretto, che però collassa e la realtà del nostro più recente passato è assai più vera e dolorosa. C’è la mafia che è ancora la piovra che tutto agguanta con i pizzini, le bombe e il potere che logora chi non ce l’ha. Ci sono i picciotti con le camicie alla Narcos, le macchine sostenibili e gli studi classici.
La caricatura della Sicilia
Ci sono tutti gli stereotipi su Cosa nostra, la lotta tra famiglie nemiche, i ROS che sono sempre sul punto di, ma arrivano sempre un minuto troppo tardi, la corruzione, lo Stato complice, la pupa del boss dallo sguardo malinconico e dalle manie suicide, c’è il rampollo con velleità imprenditoriali e senza coraggio, ci sono i padri a fare scorrere sangue e vino in egual misura.
A ben vedere ci sono 20 anni di fiction, quelle brutte e quelle belle, c’è Gomorra (e come non potrebbe), il Commissario Montalbano, l’Onore e il Rispetto, Distretto di Polizia, Ultimo, i Cento Passi (persino!), c’è tutto, ma in modo sublimato, un’enorme citazione in 6 puntate, un omaggio al genere, ma anche una presa in giro arguta e sfrontata dei suoi stereotipi e dei suoi caratteri. La caricatura di una Sicilia cui sembravamo ormai assuefatti e che, invece, ci pare nuova e di sconcertante bellezza.
E mentre, in perfetta estetica tarantiniana, la gente viene massacrata, sbudellata, crivellata di colpi, fatta saltare in aria su una mina sulle note di Franco Battiato, veniamo spinti, presi a calci, strattonati, gettati verso gli inferi dei brutti pensieri in cui il personaggio di Nino/Balduccio sembra essere determinato a sprofondare. E che grandissima goduria.
La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!
Si ride della follia del male che magari fosse fiction, del bene che inciampa nei vizi, nel compiacimento di sé, nelle lusinghe di un twist improvvisato. Si ride dei tentativi maldestri di emanciparsi dal passato per poi finire incagliati nelle sue trappole e si ride tantissimo di certe formule narrative che hanno semplificato la complessità del reale, appiattendola su uno stupido dualismo manicheo, quando bene e male non sono che categorie didascaliche, schede di lettura per facilitare il nostro stare al mondo, ma nulla più, perché lo sappiamo bene, in noi vive l’eroe e il villain, il mutaforme, il mentore e l’imbroglione. E poi, come dice il vecchio adagio:
Se vuoi che le persone siano buone, friggile!
The Bad Guy è crime, black comedy, mafia movie, ma è soprattutto una danza scatenata a bordo piscina, uno spettacolo dei Monty Python dissacrante e sregolato, un giro sulle montagne russe liberatorio, di quelli che ti fanno tirare giù i santi del calendario, ti scompigliano i capelli e rivoltano lo stomaco, e poi, una volta scesi a terra, ti fanno dire “Lo rifacciamo?”