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“This Festival Is Eating Itself”

“This Festival is eating itself”

C’è un’antica querelle che da quasi un secolo accompagna i dibattiti e le riflessioni sul cinema, è un problema di tipo ontologico che contrappone drasticamente l’Europa e gli Stati Uniti, l’unicità dell’opera d’arte – quindi la qualità -e la standardizzazione della merce – ovvero la quantità.

Il cinema è industria, fabbrica che razionalizza tutte le fasi della produzione ai fini del massimo profitto, è un “formidabile arto del gigante industriale”, come scriveva Marshall McLuhan nel 1964. Il cinema è arte, è strumento per indagare il reale, partecipare alle cose del mondo, preservare la vita al pari delle arti plastiche, secondo André Bazin. Il cinema, molto probabilmente, è più il fantasmagorico risultato di un’apparente inconciliabilità che consiste, come sosteneva Edgar Morin, nel “suo essere contemporaneamente arte e industria, fenomeno sociale e fenomeno estetico”.

Un’impresa ardua, insomma, trovare tra critici e studiosi una visione comune, una qualche forma di conciliazione sulla natura del medium cinematografico. Si trova, invece, con maggiore frequenza l’ennesima bagarre tra sponde opposte dell’oceano.

Così quando l’inglese Steve McQueen sceglie prima il Telluride Festival in Colorado e poi il Toronto International Film Festival invece del Lido di Venezia (le due manifestazioni sono quasi contemporanee) per presentare in anteprima mondiale il suo ultimo film,12 Years A Slave, che odora già di capolavoro e di Oscar, si riaccendono vecchi rancori e aristocratici pregiudizi. Da una parte il mercato e l’egemonia degli incassi, dall’altra l’espressione artistica e autoriale.

Il Tiff nasce in sordina nel 1976 e diventa nel giro di un ventennio la più importante manifestazione cinematografica dopo Cannes: 298 film, 147 anteprime mondiali, 50 paesi partecipanti, 23 sale, 10 giorni di proiezioni, conferenze, incontri e un fiume di presenze patinate. Una vetrina imperdibile, soprattutto per gli americani, molto più interessati oggi agli incassi domestici di quanto fossero negli anni 80 e 90. Il Canada è vicino, strizza l’occhio agli Studios e parla la lingua dei grandi numeri – “Size affords diversity” ha dichiarato il direttore del Festival, Cameron Bailey, in risposta alle accuse di un numero eccessivo di pellicole che confonderebbe il pubblico, schiaccerebbe le piccole produzioni e sacrificherebbe la qualità.

A Venezia resta un passato glorioso, quello del festival più antico del mondo, meno film – persino Daniele Luchetti preferisce il Tiff al Lido per presentare il suo italianissimo Anni Felici – qualche divo – ma non quelli che il pubblico aspetta – pochi giornalisti ed estremismi autoriali che pochi comprendono – gli altri d’autori, come Refn o i fratelli Coen, sono volati in Francia. Solo in questo modo, tuttavia, a sentire il suo direttore artistico, Alberto Barbera, sembra che la qualità dell’opera venga assicurata e preservata, ricordando a tutti che non di festival si tratta, ma di mostra d’arte cinematografica. Si tratta di divulgazione culturale, non di affari.

Rimane dietro quest’alibi il pregiudizio – evidente conseguenza di un retaggio umanistico tipicamente europeo – che la qualità di un film venga inficiata dalla sua commerciabilità e che Hollywood (o le tante hollywood come amava dire il padre del New American Cinema Jonas Mekas) sia soltanto il Moloch che divora l’arte a suon di quattrini, trasformando i divi in merci evanescenti e il pubblico in avidi consumatori di gadget.

Che il cinema sia un’arte e tuttavia un’industria, secondo Andrè Malraux, o che sia merce benché arte, come scriveva Peter Bachlin, quello che è certo è la necessità, in Italia soprattutto, di fare i conti con quel diffuso senso del pudore che si manifesta nei confronti della mercificazione del lavoro intellettuale e artistico, accettando il film e tutto ciò che gravita intorno ad esso come il risultato di un investimento creativo, affettivo e, allo stesso tempo, economico.

Chissà che Venezia non torni ad essere quella straordinaria e ambita vetrina che presentò al mondo il genio tormentato di Elia Kazan e la lungimiranza tecnologica di Robert Zemeckis.

Chiara Ribaldo | Bake Agency

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