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Transparent, così è se vi pare

La famiglia è un microcosmo caotico, ci trovi pezzi di ricordi, di segreti, di affetti gettati ovunque, come vestiti ammucchiati su una sedia o finiti, a furia di calci, sotto il letto. Il pranzo di Natale, le collane di perle sul comò, i trucchi sparsi, la lista della spesa sul frigo, le telefonate notturne, i silenzi lunghissimi e le risate sotto il portico, le porte sbattute in faccia e i salti giù dalla finestra.

La famiglia è il Giardino dell’Eden e delle seconde, mille, possibilità, è la cacciata in un Inferno da cui è impossibile fuggire. È la mappa esistenziale senza nord, il baule pieno di cianfrusaglie dentro il quale nascondersi e nel quale cercare tutte le risposte quando le domande fanno male.

Raccontare una famiglia, in fondo, è come raccontare il mondo.

“Transparent”, serie prodotta da Amazon Studio e creata da Jill Soloway, una delle autrici del successo HBO “Six feet under”, è la fotografia di un universo familiare imperfetto, di un groviglio emotivo che assorbe, restituendole, le nevrosi di una società schizoide, disperatamente individualista e affettivamente bulimica. Ma è soprattutto una storia d’amore e di accettazione, la presa di coscienza di quello che siamo e del modo in cui vogliamo che gli altri ci vedano, in trasparenza, come di fronte ad uno specchio.

Maura Pfefferman è una donna di mezza età, il corpo robusto, i capelli grigi abbandonati su spalle possenti, il viso stanco di chi ha smaltito insonnia, delusioni e pugni allo stomaco. Tre figli adulti, Shelley, Josh e Ali, mai diventati grandi, un matrimonio fallito e la bruciante consapevolezza di voler essere altro. Perché in realtà Maura è Mort, un uomo; da qui il titolo, Trans-parent, uno straordinario gioco di parole per richiamare la condizione di transgender del protagonista e quell’irrinunciabile bisogno di rivelarsi.

Eccola l’agnizione che di norma conclude il racconto e che qui, invece, lo apre, plasmandolo. L’improvviso quanto inaspettato riconoscimento della vera natura del protagonista è, infatti, l’inizio di una vera e propria avventura sentimentale, l’incipit di un romanzo di formazione che coinvolge tutti, quei tre figli dalla vita emotiva incasinata e dall’identità sessuale incerta, l’ex moglie sciroccata e piena di ansie, Shelly, la stramba comunità ebraica della quale sono parte loro malgrado e la realtà Lgbt, fatta di concorsi canori, gruppi di mutuo aiuto, lezioni di pilates, feste, punture di estrogeni e sincerità a pacchi.

Quella dei Pfefferman è una famiglia orgogliosamente disfunzionale, eppure unita e solidale con ciascuno dei suoi membri, tanto che a guardarla,  proprio come succedeva con La famiglia Addams, chiamata a prendersi gioco del moralismo e delle idiosincrasie della rigida borghesia americana, si ha voglia di farne parte.

Tra le serie più originali ed eleganti degli ultimi anni, “Transparent” è l’esempio perfetto delle opportunità di narrazione offerte dal web, “una serie rivoluzionaria”, come  l’ha definita la sua stessa ideatrice, perché parla di gente che di norma la tv ignora o trasforma in orribili macchiette da sitcom. Nessuno stanco stereotipo, appunto, solo tanta, troppa umanità da venirne quasi travolti.

Amazon Studio, che ha già pronte una decina di serie pilota tra cui la political comedy “Alpha House” con John Goodman, sfida apertamente Netflix – i soldi dietro al successo globale delle due stagioni di “House of cards” con Kevin Spacey e a quello della black comedy tutta al femminile “Orange is the new black” – aprendo ai naviganti l’intero processo decisionale, mischiando con lungimiranza le logiche mainstream a quelle della cultura dal basso e chiedendo agli spettatori un giudizio sui contenuti trasmessi in anteprima. D’altronde, come ha affermato il suo presidente, Roy Price, “se stai cercando di decidere quale programma fare è una buona idea chiedere ai clienti quale preferisce”.

Di fronte a preferenze di questo tipo, ipotizziamo che preti, monache, professori, carabinieri, medici e casalinghe, più o meno disperate, possano trovarsi presto, fortuna nostra, senza lavoro.

 

Chiara Ribaldo | Bake Agency

 

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