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TRUTH. Una storia americana

Nel film Fortapasc, straordinaria trasposizione sul grande schermo della vita di un altrettanto straordinario giornalista, Giancarlo Siani, il regista Marco Risi struttura un dialogo breve ma significativo tra un Siani appena venticinquenne e il suo ex capo in una redazione di Torre Annunziata.

“Tu che vuoi fare?”

Io voglio fare il giornalista.”

“(…) ci stanno due categorie: i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. (…) I giornalisti giornalisti sono tutta un’altra cosa: portano le notizie e gli scoop. E non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione, perché spesso le notizie e gli scoop portano delle rotture ‘e cazzo. Dai retta a me questo non è un paese per giornalisti giornalisti, ma un paese per giornalisti impiegati.”

Siani era un giornalista giornalista, e avrebbe trovato la morte per mano della camorra neppure un anno dopo. Mary Mapes, protagonista della storia vera e del libro da cui è stato tratto Truth, è una produttrice/reporter con lo spirito da giornalista giornalista, in un Paese in cui solo apparentemente questo ruolo è più facile rispetto all’Italia. Tratto dal memoir scritto dalla stessa Mapes, intitolato  “Truth and Duty: The Press, the President, and The Privilege of Power”, e diretto da  James Vanderbilt al suo esordio dietro la macchina da presa, Truth è un film americano, nel senso pieno e controverso del termine.

Patriottico quanto basta, talvolta esageratamente descrittivo e pomposo nel rappresentare un dietro le quinte che resta nonostante tutto nebuloso, il film racconta con un’enfasi evocativa e a tratti urlata (che solo Cate Blanchett poteva governare magistralmente) quanto accaduto durante il Rathergate, lo scandalo che ha investito 60 Minutes, leggendaria trasmissione della CBS, durante le elezioni presidenziali del 2004. L’essenza di Truth è contenuta nel titolo: la verità non viene fuori in modo chiaro, non ha contorni definiti ma si delinea come un ideale a cui tendere e per cui combattere, anche a costo di perdere tutto.

Mary Mapes vuole realizzare una puntata di 60 Minutes per raccontare i punti oscuri della carriera militare di George Bush, allora presidente degli Stati Uniti e in corsa contro John Kerry, candidato democratico, per il rinnovo del mandato. Nella sua carriera da reporter, la Mapes ha già fatto tremare la rigida egemonia americana, rivelando al pubblico lo scandalo delle torture ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Grahib.

In quest’occasione, tuttavia, l’inchiesta della Mapes avrà risvolti imprevedibili, che conferiranno drammaticità alla storia professionale e personale sia della produttrice che del team investigativo da lei stessa creato (da segnalare l’ottima prova di Dannis Quaid, comprimario di forte spessore). Parallelamente, il film si arricchisce del racconto di un sodalizio di vecchia data tra Mary Mapes e Dan Rather, giornalista storico della CBS e conduttore di CBS Evening News per 24 anni. Tra i due c’è un legame profondo, con Rather che sostituisce ormai la figura del vero padre della Mapes, alcolizzato e violento, e che le resta accanto nel bene e nel male.

Cate Blanchett e Robert Redford sono perfettamente consapevoli del fatto che la loro bravura sia ormai indisputable: Blanchett gestisce con classe, forza ed eleganza gli eccessi emotivi legati all’evoluzione della vicenda narrata, Redford ha il suo potere nello sguardo, e cattura l’attenzione dello spettatore con una calma serafica che nasconde uno spirito fiero. Entrambi sono molto fedeli alla realtà dei loro personaggi, e riescono a tenere lontano l’ingovernabile ego dell’attore, pur possedendo una levatura artistica conclamata.

Quello che emerge in Truth, infatti, è la potenza della storia: il mondo del giornalismo americano, così diverso dal nostro, così caratterizzato, si mette alla prova e mette alla prova i suoi protagonisti. La dignità della Blanchett e la sua forza che non concede spazio a un briciolo di arrendevolezza, diventano l’ultimo baluardo di un’informazione che continua a fare il suo dovere, nonostante tutto.

Dan Rather ha così commentato Truth: “Questo film racconta cosa è successo alla libera informazione, come e perché è successo, e perché dovrebbe preoccuparvi”. Rather è un anchorman vecchio stampo, con il bloc-notes sempre tra le mani, uno di quelli che alla festa mondana che omaggia la sua lunga carriera preferisce l’intervista con un generale americano che ha una storia da raccontare. E’ forte il contrasto tra il suo modo di fare giornalismo e l’avvento di internet e dei blogger, che nel film hanno un ruolo tutt’altro che marginale.

Truth lascia un senso di spossatezza, una volta terminato, una calma solo apparente paragonabile alla quiete dopo la tempesta, un’irrequietezza che nasconde in sé il desiderio di ricominciare. La storia riserva ai protagonisti sorti diverse, ma quello che rimane è la voglia di fare domande, ovvero di proteggere e sostenere chi quelle domande le pone al nostro posto. La ricerca della verità, il bisogno di informare, la certezza che si può sempre tornare a raccontare una storia: per continuare ad essere giornalisti giornalisti, anche a costo di rovinare tutto. Ne sarà valsa comunque la pena.

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