Provocatorio, disturbante, comico, non sense. Kevin Smith, uno degli autori più originali e controversi che il Sundance abbia formato e sponsorizzato nel corso della sua lunga storia, regista di “Clerks” e “Dogma”, torna a prendere a schiaffi il pubblico e lo fa con “Tusk”, un horror che ricorda le atmosfere inquietanti di “Misery non deve morire” e la chirurgia splatter del “Centipede umano” di Tom Six. Molti non apprezzeranno o non capiranno, così è stato anche alla proiezione stampa qui al Festival Internazionale del Film di Roma. Ma va bene così, uno come Smith o si ama o si odia.
Wallace Bryton è un idiota. Il suo lavoro come podcaster lo spinge dalla California fino alle lande desolate del Canada in cerca di una storia stramba per il suo programma in Rete insieme all’amico fraterno. Quel Canada pacifico, ottimista in cui non si vendono armi, in cui chiunque gioca a hockey, mangia sciroppo d’acero, in cui fa freddo anche d’estate. Un posto noioso e deprimente per chi viene dalla chiassosa Los Angeles. Almeno apparentemente. “Qui non abbiamo serial killer”, dice irritato un poliziotto. Eppure se l’orrore e la follia decidessero di abitare da qualche parte, quel posto sarebbe sicuramente lì tra le distese infinite di abeti.
Comunque, la storia stramba alla fine trova lui. Un vecchio paraplegico lo accoglie in casa e gli racconta le avventure straordinarie che hanno segnato la sua vita, dall’incontro con Hemingway al naufragio nei gelidi mari del Nord fino all’intensa amicizia con un tricheco che gli salverà la vita su un’isola deserta. Mr. Tusk, un tricheco. Wallace , però, non lo so ancora che il protagonista del prossimo incredibile racconto, quel racconto da 500 dollari – “non posso sprecare un biglietto aereo, mi serve qualcosa per il sito” -, diventerà proprio lui. Non lo sa in quale terribile e indicibile incubo si addormenterà. Al suo risveglio Wallace è il nuovo Mr. Tusk, un tricheco umano. Mutilato, umiliato e, alla fine, addestrato ad essere un animale.
Sarebbe solo un horror rivoltante e neanche troppo originale se non fosse una pellicola di Kevin Smith. Se non ci fossero le battute al vetriolo in perfetto stile “Clerks” e quei personaggi al limite della demenza così abilmente costruiti e tra cui spicca un irriconoscibile Johnny Depp, nei panni di un ex investigatore del Quebec un po’ suonato. Se non fosse che la stessa idea del film nasce da una lunga discussione tra Smith e i suoi fan durante una puntata del suo podcast “SModcast 259 The Walrus and The Carpenter” su un annuncio (poi rivelatosi falso) di un uomo disposto ad offrire gratuitamente un alloggio solo a chi avesse accettato di vestirsi da tricheco.
Che, poi, a ben vedere, questa incursione nel genere è solo una scelta estetica. È anche essa un costume cucito addosso, di certo meglio del costume di pelle, vera, sul povero Wallace. La natura di “Tusk” è un’altra, è più quella della commedia irriverente che gioca con i luoghi comuni e gli stereotipi, quelli che nascondono sempre un fondo di verità. È uno sfottò sui pregiudizi, al di qua e al di là del confine. È solo, per usare le parole dello stesso Smith “a fucked up story” di un vecchio matto che recita alcuni versi di Lewis Carroll e della “Ballata del Vecchio Marinaio” di Coleridge ad un povero figlio di puttana cucito in un vero costume da tricheco.
Ecco la storia del folle che mutilava esseri umani per trasformali in Mr. Tusk, tricheco, non è che un “wired little movie”, un piccolo film strano di Kevin Smith.
Chiara Ribaldo