Van Gogh e il Giappone è un film dallo stile documentaristico che ha l’obiettivo di mettere in luce il ruolo, importantissimo, che l’arte giapponese ha avuto sullo stile dell’artista olandese. Un’evidenza emersa in realtà nell’ultimo decennio ma che, svelata attraverso la pellicola, risulta lampante.
L’anno in cui nacque Van Gogh fu un anno fondamentale nella storia del Giappone. Per salvaguardare le proprie secolari tradizioni, il Giappone non ha mai permesso l’intrusione della cultura occidentale, escludendo qualsiasi tipo di rapporto con l’esterno di natura culturale o commerciale.
Fu proprio nel 1853 che iniziò ad aprire cautamente le porte all’Occidente, suscitando nel Vecchio Continente una forte curiosità. Tale curiosità, nei fervidi ambienti artistici parigini, si traduce, negli anni a seguire, nella nascita del movimento definito japonisme, al quale lo stesso Van Gogh non resta immune.
A Parigi dunque iniziano a circolare manufatti e opere d’arte provenienti dal Paese del Sol Levante. Per pochi franchi l’artista olandese acquista più di 600 cartoline ritraenti scene e personaggi dall’iconografia tipica dell’arte giapponese (sviluppatasi tra il periodo Edo e quello Meiji). Non riuscendo a rivenderle per lo scarso valore, decide di tenerle, restando affascinato, tra le altre cose, dall’uso del colore.
Lo studio dell’arte giapponese di Van Gogh
Il suo percorso di studio dell’arte giapponese inizia con la riproduzione di alcune di quelle cartoline che più lo colpirono. Prosegue poi con la ricerca del perfetto colore, che lo porterà nel sud della Francia, ad Arles, dove l’azzurro del cielo riusciva ad essere piatto come nelle iconografie del Sol Levante.
Qui compose due tra le sue opere più conosciute (“Girasoli” e “La camera di Vincent ad Arles”) con l’intento di arredare la sua camera un po’ spoglia per l’arrivo del pittore amico Gauguin. A tal proposito, sorvolerei sull’infelice epilogo della convivenza “forzata” (fortemente voluta da Theo, fratello di Vincent e amico di Gauguin) tra i due artisti, della quale resta a testimonianza il famoso “Autoritratto con orecchio bendato”.
Film che raccontano la vita di personalità del panorama artistico come questo, in cui vengono mostrate e spiegate opere da esperti del settore, con cenni alla vita dell’artista, al contesto storico in cui si sviluppa la sua arte, sono spesso una buona sintesi. Riescono a coniugare informazioni sparse e carenti, spesso non semplici da reperire; perché le mostre non sempre sono dietro l’angolo e troppo spesso sono male allestite, non permettendo a chi approccia per la prima volta all’artista di capire realmente chi sia o cosa stia guardando.
Il fatto che Van Gogh non sia mai stato in Giappone ma che attraverso lo studio sia riuscito a prendere ispirazione dall’arte nipponica, rielaborandola secondo il proprio stile, mi ha fatto pensare all’essenza stessa dell’arte, in tutte le sue forme: avere la capacità di far vedere e vivere cose ed esperienze come se fossero realtà, riuscendo a portare lo “spettatore” ai piedi di un mandorlo in fiore, in una pioggia di petali di rose, dentro un viaggio interstellare.