All’improvvisa morte di Pablo Picasso, il primogenito Paulo pretese che fosse inventariata l’enorme massa di materiali artistici ritrovati nelle molte case picassiane sparse nel mondo: lo scopo era gestire, con i diversi parenti, questa imponente eredità.
Fu incaricato un esperto d’aste e, rispetto ai tre mesi di lavoro inizialmente preventivati, occorsero ben sette anni per mettere ordine in questo enorme tesoro artistico.
Si è così potuto disporre, come mai era stato prima possibile fare, di una visione cronologica completa di tutte le innumerevoli opere di Picasso. Ma, soprattutto, il mondo ha potuto conoscere una grande massa di opere, soprattutto disegni preparatori, mai visti prima di quel momento da alcuno.
La quantità (mai disgiunta dalla qualità artistica) che ha contraddistinto la produzione di quadri, disegni, ceramiche e altre forme espressive di Picasso, era nota. Diciamo anche che “il molto” era già scritto nel destino di quel genio, a partire dal suo nome completo: Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Martyr Patricio Clito Ruíz y Picasso.
Essendo però anche capace di estrema sintesi, tutto questo divenne semplicemente Picasso (il cognome della madre) mirabilmente reso indimenticabile da una versione grafo/pittorica che è sempre stata presa ad esempio dai designer di tutto il mondo.
Apparve chiaro dal materiale ritrovato che due sono le componenti che hanno influito maggiormente sul suo percorso artistico: la fotografia e le storie sentimentali della sua vita, non solo intese come passioni carnali ma anche come momenti di grande intensità umana, come gli amori o i lutti per la morte di parenti e amici che hanno costellato la sua vita.
Quando Picasso si avvicinò alla fotografia (anche come autore, ovviamente pieno di talento anche in questa tecnica) si chiese, come molti, se la pittura, dopo l’avvento di questo mezzo espressivo, avrebbe ancora potuto avere un senso.
Nel dicembre del 1943 Picasso disse al suo amico e fotografo Brassai…
Perché credi che metta la data a tutto ciò che faccio? Non basta conoscere le opere di un artista: occorre sapere anche quando le ha fatte, perché, come, in quali circostanze. Probabilmente un giorno esisterà una scienza che si chiamerà la scienza dell’uomo e che cercherà di penetrare più a fondo nell’uomo attraverso
l’uomo/ creatore.
Il fatto di riprodurre fotograficamente la vita lo limitava.
Capì che non si doveva dipingere (o fotografare) ciò che gli occhi vedevano ma ciò che il cuore sentiva.
Per questo, quando il suo grande amico Carlos Casagemas si sparò alla tempia per i tradimenti della sua amata, la sua pittura cambiò. I colori non potevano più esistere e disse: “Quando mi resi conto che era morto, incominciai a dipingere in blu”.
Non era un colore che lui vedeva, era un tono cromatico che appannava i suoi sentimenti: il colore del freddo, bello e spietato; il colore dell’addio.
Poi, dalla primavera del 1904 fino al 1909, Picasso smise di usare il blu, considerandolo troppo impersonale, e, complice il fatto che iniziò a frequentare il circo Medrano, adottò una tavolozza composta da gradazioni più calde e delicate: il celebre suo “periodo rosa”, pieno di clown e colori pastello.
Quindi, il passo cruciale: la necessità di abbandonare i canoni tradizionali e di sentire (sentire, non vedere) le cose con occhi nuovi, anzi, con un cuore nuovo: ecco il cubismo.
Picasso e Braque iniziano a frammentare in diverse “schegge di realtà” le figure, viste tutte da angolazioni diverse, e poi sovrapposte in un nuovo ordine.
Volti, chitarre, violini, boccali e nature morte che venivano “sentiti” come oggetti da trattare a una sola dimensione, quella frontale.
Ecco riemergere, nell’inventario delle opere di Picasso che fu fatto, come si è visto, a sette anni dalla sua morte, l’importanza delle date messe in calce a tutte le sue opere.
Proprio dalla successione degli studi, degli schizzi, delle prove, realizzate in grande quantità, emergeva chiaro che il genio di Picasso nasceva dal cuore: “Non devi dipingere quello che vedi ma quello che senti”.
In omaggio a questo comandamento picassiano questo sarà il primo articolo di una serie dedicata a quella che Picasso riteneva dovesse chiamarsi “la scienza dell’uomo”.
Tratterà prevalentemente il valore che ha il fatto di condividere la cultura, qualunque essa sia; perché una cultura custodita, trattenuta, gelosamente protetta, non è altro che egoismo.
Se non è condivisa, la cultura non è tale.