“Stranieri ovunque – foreigners everywhere”: è il titolo della sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, tratto dai lavori del collettivo Claire Fontaine: culture al neon di diversi colori che scandiscono le parole “Stranieri Ovunque” in più di cinquanta lingue e dialetti, alcuni scomparsi. Sono esposte alle Gaggiandre dell’Arsenale, sospese sull’acqua e fotografatissime, anche se il neon non è mai facile da riprendere.
I pronostici e gli umori
La sciagurata sovrapposizione tra Milano Design Week e pre-opening della Biennale di Venezia mi costringe ad arrivare in laguna nell’ultimo giorno prima della proclamazione dei vincitori di questa sessantesima edizione.
Mi dirigo subito in sala stampa e sondo gli umori di una quindicina di colleghi, in prevalenza stranieri, che accettano di rispondermi: i favori dei pronostici si concentrano su Francia, Inghilterra, Giappone, Italia, Nigeria e Serbia. In diversi mi aggiungono che il coloratissimo padiglione USA avrebbe le sue chance, se non avesse già vinto nell’ultima edizione. Per gli artisti invitati, in pochi fanno previsioni data la platea troppo vasta e i molti nomi sconosciuti.
A sera sono stremato dalla marcia forzata per vedere quanto più possibile e soprattutto i favoriti, rallentato peraltro dall’inaugurazione del padiglione Italia con l’intervento dirompente del sindaco Brugnaro, che ho già raccontato su questo magazine.
Stremato ma ancora abbastanza lucido per realizzare che l’impostazione data dal coraggioso curatore brasiliano di questa Biennale sembra voler ricordare che esiste un’altra arte oltre quella occidentale. Un altro mondo che ha le sue storie, le sue tradizioni, le sue credenze, le sue cosmogonie, insomma la sua cultura da proporre. Mi pare difficile che, in questo contesto, la Giuria internazionale premi uno dei padiglioni europei. Quanto al Giappone il suo messaggio di sostenibilità, offerto con la consueta e, quest’anno, anche profumata delicatezza, mi è sembrato però non abbastanza incisivo; con quello della Nigeria non sono entrato in sintonia.
Decisamente scandito invece il messaggio del padiglione USA che si è affidato per la prima volta a un nativo che racconta con orgoglio gli indiani “diversi”. Ma condivido che la recente vittoria di due anni fa sarà psicologicamente un ostacolo.
I vincitori: Leoni e Menzioni
La mattina dopo arriva il verdetto: e sì, prevale nettamente “l’altro” mondo! Eccoli i vincitori:
- Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale: Australia, per “Kith and Kin” dell’artista Archie Moore
- Leone d’oro per il miglior artista partecipante al collettivo tutto femminile di artiste Maori: Mataaho Collective della Nuova Zelanda
- Leone d’argento per il miglior partecipante giovane: Karimah Ashadu (britannico-nigeriano). [Su quest’ultimo, purtroppo, non troverete nessun approfondimento in questo articolo, perché mi è sfuggito; scusatemi, ma non parlo di opere che non ho visto direttamente].
Menzioni speciali a:
- Partecipazione Nazionale della REPUBBLICA DEL KOSOVO per “The Echoing Silences of Metal and Skin” di Doruntina Kastrati
e, per gli artisti partecipanti, a:
- Samia Halaby (Gerusalemme, Palestina) e La Chola Poblete (Mendoza, Argentina)
Il padiglione dell’Australia: siamo tutti parenti!
Quando giunge l’annuncio dell’assegnazione del Leone d’oro, si forma subito una lunghissima fila davanti al padiglione dell’Australia che si trova in una splendida posizione, ma defilata rispetto ai padiglioni storici. Mentre mi dirigo verso l’ingresso incrocio Gennaro M, insegnante in pensione di storia dell’arte che non si perde una Biennale dal 1995. Gennaro è famoso per le sue sintesi estreme. Allora? gli chiedo. “Caro Marco, siamo tutti parenti. Parola e gesso di Archie!”.
Entro. Sul soffitto e sulle pareti nere è disegnato, con il gesso, una sorta di gigantesco albero genealogico. Al centro c’è un grande piano coperto di documenti e circondato da un fossato d’acqua.
I popoli delle Prime Nazioni in Australia rappresentano le più antiche culture sulla Terra. Ma i suoi membri sono quelli che hanno trascorso più tempo in stato di detenzione: “Kith and Kin” (Amici e parenti) di Archie Moore è una testimonianza di questa realtà.
Il vasto murale ripercorre le sue genealogie lungo oltre 65.000 anni, fino a comprendere gli antenati comuni a tutti gli esseri umani. In quelle pile di documenti ci sono anche i rapporti di medici legali: un memoriale dei morti durante la detenzione. Le leggi coloniali e le politiche governative sono state a lungo imposte spietatamente ai popoli delle Prime Nazioni. In pratica l’artista utilizza la sua storia familiare per rivelare al pubblico l’altra storia del mondo, quella scomoda, quella poco raccontata.
Dalla motivazione della Giuria: “Questa installazione si distingue per la sua forte estetica, il suo lirismo e la sua invocazione per una perdita condivisa di un passato occluso. Con il suo inventario di migliaia di nomi, Moore offre anche un barlume alla possibilità di recupero”.
Ma il senso ultimo sta nella perfetta sintesi di Gennaro M: quello sconfinato albero delle radici ci urla che siamo tutti parenti!
Kosovo: il lavoro usurante delle donne
Come era successo nel 2019, quando il Leone d’oro venne assegnato al padiglione della Lituania, in sala stampa non c’era nessuno che l’avesse visto. Ed è cominciata subito la ricerca che, allora, fu una vera caccia al tesoro per una dislocazione bellissima ma fuori rotta rispetto alle sedi note. Quest’anno è stato più semplice: a qualche centinaio di metri dalla fermata del traghetto per l’Arsenale c’è il padiglione del Kosovo, al quale è stata attribuita dalla giuria la menzione speciale.
Nell’articolo precedente sul padiglione Italia ho sottolineato come un’idea forte rischia poi di diluirsi in ambienti troppo grandi, qui lo spazio è davvero limitato: anche per questo l’opera e il messaggio dell’artista investono con forza il pubblico che è portato a interagire con queste grandi conchiglie, facendosi delle domande.
Piccola ma potente, l’installazione di Doruntina Kastrati fa riferimento al lavoro industriale femminilizzato e all’usura del corpo delle donne lavoratrici: un paesaggio sonoro vibrante si libera appena entriamo in una di queste conchiglie, risuonando sia nel nostro scheletro sia metaforicamente “in un’arena più ampia di attivismo femminista”, come recita un passaggio della motivazione ufficiale.
Leone d’oro al miglior partecipante
Mentre per i padiglioni nazionali ero riuscito a raccogliere dei pronostici in sala stampa, per gli artisti invitati in pochi avevano azzardato fare previsioni: platea troppo vasta e molti nomi del tutto nuovi e poco conosciuti. Solo cinque avevano osato, convergendo su Yinka Shonibare (britannico-nigeriano) e il suo “Astronauta rifugiato”. Devo dire che anch’io ho fatto il tifo per lui!
Ha colpito l’immaginario di molti questo astronauta che trasporta una rete piena di oggetti, anche vecchie cose, del pianeta terra. Perché è fuggito e dove sta rifugiandosi? Quanto sarà ospitale il nuovo mondo che ha dovuto scegliere?
“C’est tendre et en même temps ça me fait peur; pire, ça m’inquiète!” commenta una curatrice belga. Condivido l’ambivalenza della sua percezione: fra tenerezza e angoscia, questo manichino in fibra di vetro a grandezza naturale ci costringe a porci delle domande sulla salute del nostro pianeta. Credo sia l’opera più fotografata nei giorni di pre-opening, ma non sarà l’opera vincitrice che è proprio nella sala accanto: è l’installazione “Tukapau”. Potente e luminosa.
È l’istallazione di un collettivo maori (Mataaho Collective) di sole donne: Bridget Reveti, Erena Baker, Sara Hudson e Terri Te Tau. L’installazione colpisce immediatamente per la sua forza e la sua luminosità, prima ancora di saperne di più sul significato, sul valore simbolico, sulle autrici. Il Tukapau, qui presentato in una versione gigantesca sospesa al soffitto, è una stuoia usata nelle cerimonie, in particolare durante il parto. L’utero femminile è sacro per i Maori in quanto spazio nel quale i nascituri sono in connessione con il divino. L’installazione è spettacolare nella sua grandiosità e, osservandola da prospettive diverse, rivela la sua complessa struttura con un gioco di luci e ombre su soffitto, pareti e pavimento.
Nella motivazione della Giuria, che ha assegnato il Leone d’oro all’unanimità, si avverte anche il livello di partecipazione emotiva dei giurati: “Il Collettivo Mataaho ha creato una luminosa struttura intrecciata di cinghie che attraversano poeticamente lo spazio espositivo. Facendo riferimento alle tradizioni matrilineari dei tessuti, con la sua culla simile a un grembo, l’installazione è sia una cosmologia sia un rifugio. Le sue impressionanti dimensioni sono una prodezza ingegneristica che è stata resa possibile solo dalla forza e dalla creatività collettiva del gruppo”.
Questa scelta della Giuria troverà d’accordo la grande maggioranza dei visitatori del primo giorno di apertura al pubblico.
“No, non è una performance!”
Dopo l’annuncio dell’assegnazione del Leone d’oro, lo spazio che ospita l’installazione del Collettivo Mataahao è preso letteralmente d’assalto: tutti vogliono fotografarla, ma si rendono rapidamente conto che catturare in uno scatto l’atmosfera e la magia di quel gioco di vibrazioni, luci e ombre è davvero difficile.
E poi, l’imprevisto: un coreano, che sta facendo una ripresa con una reflex, indietreggiando inciampa nella base di una colonna. Perde il controllo della macchina che vola per aria e cade rovinosamente a terra: il rumore dell’impatto è sinistro e pezzi di plastica e piccoli cristalli sparsi testimoniano il danno. Il coreano si rialza massaggiandosi la nuca e corre a raccogliere la reflex.
La guarda sconcertato; poi comincia a saltare a piedi uniti come un canguro, urla la sua disperazione e la sua rabbia brandendo verso l’alto la reflex “ferita”: non capisco il coreano ovviamente, ma i contenuti sono intuibili. E non si ferma: continua a fare il canguro urlante, girando in tondo. La scena è drammatica e buffa insieme. Chi arriva pensa sia una performance: “Who is the artist performing?” mi chiede candidamente l’ultimo entrato.
“It’s not a performance, he’s … incazzato nero!” rispondo; non so come si dice in inglese! Ma viene in mio soccorso, con un sorriso timido, una gentile signora che ha assistito all’incidente: “He’s just pissed off!”. Ecco.
Esco, mentre il “just pissed off” comincia ad attenuare i salti ma non gli ululati. E sì, anche gli orientali talvolta sbroccano!
La Palestinese e l’Argentina
Due le menzioni speciali della Giuria per artiste/i partecipanti, a: Samia Halaby, palestinese che vive a New York e La Chola Poblete, artista argentina di Mendoza. Confesso che non conoscevo queste artiste e anche Gennaro M. ammette la sua ignoranza, con una semi citazione di don Abbondio: “chi sono costoro?”.
In mostra c’è davvero troppo poco per farsi un’opinione; per la palestinese, una sola opera. Per cui mi rimetto alla conoscenza e alla competenza della Giuria, che poi è lo stato d’animo più diffuso. Ecco le rispettive motivazioni per la menzione attribuita:
Samia Halaby: “artista, insegnante e attivista di lunga data che la giuria desidera onorare con una menzione speciale. Il suo impegno nella politica dell’astrazione si è sposato con la sua costante attenzione alla sofferenza del popolo palestinese. Il suo dipinto modernista, intitolato Black is Beautiful, splendidamente reso nel ‘Nucleo Storico’ di Foreigners Everywhere, suggerisce non solo la sovranità dell’immaginazione, ma anche l’importanza delle solidarietà globali”.
La Chola Poblete: “si impegna con un certo umorismo in un lavoro critico sulle storie di rappresentazione coloniale da una prospettiva trans-indigena. La sua arte polivalente – che include acquerello, tessuto e fotografia – resiste all’esotizzazione delle donne indigene, mentre sottolinea il potere della sessualità. Approccia l’iconografia religiosa occidentale e le pratiche spirituali indigene con un tocco trans e queer, invertendo le relazioni di potere con opere che fanno riferimento alle conoscenze ancestrali del Sud America”.
“È la prima artista trans ad essere premiata alla Biennale” scrivono alcune agenzie di stampa. Io non ne sono così certo; più probabilmente, la prima trans non bianca.
Entrare nello spirito di questa Biennale
Opere e artisti da vedere non si esauriscono certo con i soli premiati. Tra i padiglioni meritano certamente una visita quelli di USA, come già detto, Inghilterra, Turchia, Italia, Benin e soprattutto Francia che si è affidata all’estro mitopoietico e coinvolgente del martinicano Julien Creuzet (infatti ha un titolo che è poesia: Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune).
E anche il padiglione Venezia merita la deviazione! Mi dicono che il Padiglione del Vaticano, allestito nel carcere femminile alla Giudecca, non va assolutamente trascurato; purtroppo, non ce la farò in questo primo giro. Ma ho tempo fino a novembre per recuperare. Voglio vederla questa collettiva “Con i miei occhi” che, già dal titolo, sembra contrapporsi alle dilaganti visioni mediate e manipolate. Pare che anche Papa Francesco sia intenzionato ad andare a vederla; è così spontaneo nell’approccio questo pontefice che mi verrebbe voglia di proporgli un passaggio o di chiederglielo (“Santità, andiamo in carcere insieme?”).
Ma qualunque sia il nostro orientamento sull’arte, qualunque sia il tempo che potremo dedicare alla visita della Biennale, come sempre estesa e diffusa per tutta Venezia oltre le sedi deputate dell’Arsenale e dei Giardini, è importante capirne il senso che ha inteso dargli il curatore di questa edizione: come anticipato, il brasiliano Antonio Pedrosa.
Provo a riassumerne in sei punti il pensiero, utilizzando le sue stesse parole:
- Il significato. “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” ha una pluralità di significati letterali ed evocativi: ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono, siamo dappertutto. A Venezia, poi! Ma si può anche pensare a questa espressione come a un motto, a uno slogan, a un invito all’azione, a un grido di eccitazione, di gioia o di paura: Stranieri Ovunque!”
- Gli artisti invitati. “Come principio guida, la Biennale Arte 2024 ha privilegiato artisti che non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale, anche se alcuni di loro hanno già esposto in un Padiglione Nazionale, in un Evento Collaterale o in una passata edizione. Un’attenzione particolare è riservata ai progetti all’aperto, sia all’Arsenale (con lavori di Anna Maria Maiolino e …) sia ai Giardini (con i lavori di Ivan Argote e …), e a un programma di performance durante i giorni di preapertura e nell’ultimo fine settimana della Mostra”.
- L’importanza degli artisti indigeni e pop. “Provengo dal contesto brasiliano e latino-americano in cui l’artista indigeno e l’artista popular svolgono ruoli importanti; sebbene siano stati emarginati nella storia dell’arte, di recente hanno cominciato a ricevere maggiore attenzione. Il Brasile è anche la patria di molti esodi, una terra di stranieri per così dire: oltre ai portoghesi che lo hanno invaso e colonizzato, il Paese ospita le più grandi diaspore africane, italiane, giapponesi e libanesi del mondo”.
- Il primo curatore queer. “A livello personale, mi sento coinvolto in molti dei temi, dei concetti, dei motivi della Mostra nonché nella sua struttura. Nel corso della mia vita ho vissuto all’estero e ho avuto la fortuna di viaggiare molto. Tuttavia, ho sperimentato il trattamento riservato a uno straniero del Terzo Mondo, anche se non sono mai stato un rifugiato e, anzi, secondo l’Henley Passport Index, sono in possesso di uno dei passaporti più prestigiosi del Sud globale. Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte”.
- Venezia palcoscenico di diversità. “La stessa Biennale Arte, in quanto manifestazione internazionale con numerose partecipazioni nazionali, ha sempre rappresentato una piattaforma per mettere in mostra opere di stranieri provenienti da tutto il mondo. Nel solco di questa ricca tradizione, la sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia è una celebrazione dello straniero, del lontano, dell’outsider, del queer e dell’indigeno”.
- Il tempo di e per capire. “La mia mostra coinvolge 80 Paesi e tra questi anche Hong Kong, Portorico e la Palestina. L’esposizione veneziana durerà sette mesi e sono certo che molte cose cambieranno. Cambieranno le letture, le interpretazioni e le recensioni. E spero che molte persone imparino qualcosa”
Ma cosa si aspetta, Pedrosa, che cambi? Cosa si aspetta che la sua Biennale ci comunichi? Cosa si aspetta che il mondo dell’arte occidentale accetti? Ne ho solo accennato all’inizio: si aspetta una grande prova di empatia. Che l’Occidente guardi le cose rendendosi conto che è solo una parte del pianeta e che l’arte proveniente da Asia, India, Africa, Oceania, Centro e Sud America, che abbiamo troppo spesso relegata tra le testimonianze antropologiche quando non meramente folcloristiche, racconta storie e concezioni diverse del mondo e dei suoi destini.
Credo che questa Biennale, in effetti, sia l’occasione per cominciare a misurarci con un diverso universo d’interpretazioni e suggestioni.