di Chiara Ribaldo e Giacomo Cannelli.
Lina Lamont ha una voce gracchiante, insopportabile. Ma è fotogenica e all’epoca del muto, a Hollywood, questo è sufficiente a richiamare orde di spettatori innamorati. Non importa che parli come se avesse ingoiato la puntina di un grammofono. Nessuno l’ha mai sentita pronunciare una sola vocale. Inonda lo schermo con il suo bel faccione da ragazza dell’Illinois e tanto basta.
L’attore negli anni del nickelodeon è un volto e un corpo appiccicati alla macchina da presa, vicinissima, due metri appena. Contorce ogni muscolo del viso, gesticola scompostamente su fondali artificiali. Agisce, come rammenta l’etimologia latina del termine. L’attore fa. Fa una storia, un’emozione, una parola, senza che esca nemmeno un sibilo.
Poi arriva il sonoro, costringendo i divi e le dive del muto, come la Lina Lamont di Singin’ in the Rain, a usare la propria voce, a parlare in un microfono, persino a cantare, salvo accorgersi che recitare è diventato d’improvviso un altro mestiere, difficile, impossibile.
Il re della slapstick comedy, Buster Keaton, viene licenziato dalla Metro Goldwyn-Mayer perché si muove troppo, la conturbante Pola Negri, amante di Rodolfo Valentino, viene scartata ai casting per il suo accento troppo polacco e un timbro di voce fastidiosamente ruvido, mentre Chaplin, per anni, si rifiuta caparbiamente di parlare, “il mio silenzio è di sicuro più eloquente della mia voce”.
“Il cinema è diventato piccolo”, diceva altera Gloria Swanson a Willem Holden in un dialogo di Viale del tramonto di Billy Wilder, manifestando tutto il disprezzo verso la modernità, condita con parole e con i cromatismi saturi del Technicolor.
Eppure un attore di cinema lo sa che la sua sopravvivenza non dipende solo dal proprio talento, ma piuttosto dalla capacità di adattarsi e in fretta all’evoluzione tecnologica del mezzo. Poiché l’essenza ontologica del cinematografo sta tutta lì, in quella riproducibilità tecnica dai mille ingranaggi, tra cavi, fari, aste, carrelli, giraffe e metri di pellicola.
A quasi un secolo da quel terremoto linguistico, Sir Ian McKellen, per tutti il Gandalf de Il Signore degli Anelli, è solo sul set de Lo Hobbit di Peter Jackson, davanti a lui un telo verde e 13 fotografie di nani, illuminate da lucine che si accendono e si spengono per simulare il dialogo e permettere all’attore inglese di guardare dalla parte giusta durante lo scambio, finto, di battute. In post produzione tutto diventerà reale, gli dicono, nani compresi. Sir McKellen che pure di esperienza, soprattutto in teatro come attore shakespeariano ne ha da vendere, perde il controllo, si agita, piange, urla: “non è per questo che sono diventato un attore!”
È certo un’evoluzione antropologica prima ancora che tecnologica, un cambiamento così radicale da mettere in discussione l’intero Star System, che tuttavia nei decenni è riuscito a resistere ad ogni sorta di cataclisma, dai quiz in tv agli youtubers.
In quel groviglio di effetti visivi, di 3D, green screen, di sensori ad infrarossi, di personaggi in CGI, gli interpreti devono spingere la propria immaginazione al limite, come i bambini che giocano ai cowboy e usano le dita come fossero pistole. Il cinema torna ad essere teatro, nella messa in scena innanzitutto, scarna ed elementare, ma anche nelle performance attoriali, alla riscoperta di quel volto, che deve contrarsi in centinaia di smorfie, e di quel corpo non più ingessato in singole inquadrature, a cui adesso si chiede nuovamente di muoversi, di saltellare, di farsi orco, balena, scimmia, mago, di essere alto, basso, uomo, donna, nano, di essere uno, nessuno e centomila.
Robert Zemeckis nel 1988, in Chi ha incastrato Roger Rabbit, aveva fatto dialogare il compianto Bob Hoskins con un coniglio gigante e una pupa mozzafiato, entrambi disegnati. Sei anni dopo per Forrest Gump aveva chiesto a Tom Hanks di fare finta di giocare a ping pong, di immaginare di stringere la mano a Richard Nixon e di sedere accanto a John Lennon.
Con il digitale il cinema sembra più ricco, eppure non è che un cinema per sottrazione, perché in quei straordinari crossover alla Meliès a svanire oltre gli esterni – duramente conquistati dal genio di David W. Griffith nei primi anni Dieci – è la figura dell’attore, così come la conosciamo.
Svanisce Ray Winstone, perso tra i muscoli in computer graphic di Beowulf, svanisce Zoe Saldana nascosta dalla pelle blu e dagli occhioni smeraldo della Na’vi Neytiri, svanisce Andrew Serkis diventando prima Gollum e poi lo scimpanzé Caesar. Svaniscono dietro uno strato di marcatori digitali che sostituiscono make up e vestiti di scena, trasformando i corpi e i tratti fisiognomici. Sono presenti, ma non sono più riconoscibili. Rinunciano, più o meno consapevolmente, alla presenza – quella che faceva dire a Norma Desmond “Mr. De Mille, sono pronta per il primo piano”, quella su cui si fonda da un secolo l’intero apparato consumistico di massa del divismo – per diventare virtuali, eterei, anonimi.
Non si sceglie la professione di attore per questo, McKellen ha ragione, Buster Keaton era un mimo straordinario e non aveva certo iniziato a fare film per sentirsi dire che si muoveva troppo. Neanche Serkis ha studiato recitazione per essere “catturato” da un computer ed essere trasformato in milioni di pixel, eppure se si visita il suo profilo Twitter nello spazio in cui descrive se stesso c’è scritto “virtually actor…mostly imagineer”.
Che non sia altro che la chiusura di un cerchio? In fondo le immagini in movimento erano nate come un trucco, un modo per ingannare lo spettatore. Storico rimane il racconto della prima proiezione dei fratelli Lumiere, quando un gruppo di curiosi spettatori scappò via a gambe levate davanti all’arrivo della locomotiva. Qualche tempo dopo il genio di Meliès ha continuamente giocato con gli effetti speciali: sparizioni, esplosioni, il buon Meliès aveva capito che con il cinema poteva ampliare a dismisura le sue doti di illusionista, dare più potere all’attore.
Quando il cinema è diventato di parola, lo studio è diventato indispensabile non tanto per questioni di illuminazione, quanto di audio. Girare in presa diretta era impossibile nei primi anni del sonoro. Gli attori erano costretti a fare molta attenzione con il loro movimenti mentre gli operatori soffocavano nelle scatole in plexiglass che isolavano il rumore della macchina da presa. Un esempio classico si trova nel cinema dei Fratelli Marx, se ci fate caso in questa scena la mappa che tiene Chico è “moscia”, afflosciata, questo perchè veniva bagnata per evitare il fastidioso gracchiare provocato dalla carta. (l’audio è in turco, fate finta di niente, ndr)
Negli anni di Ray Harryhausen, uno dei più grandi animatori della storia del cinema, gli attori dovevano fingere di trovarsi di fronte enormi e feroci mostri. In quel caso la tecnica usata era duplice: un sofisticato stop-motion o rettili di piccole dimensioni (lucertole) adeguatamente truccate. L’effetto stava nel riuscire a mischiare i due mondi con giochi di sovraimpressioni e retroproiezioni. Una scena storica è quella del combattimento con gli scheletri di “Jason and the Argonauts” che sarà poi d’ispirazione per Sam Raimi nel terzo capitolo de La Casa. In questo scena gli attori sono stati costretti a un durissimo allenamento per imparare alla perfezione le evoluzioni con la spada, in maniera che si potessero perfettamente legare con le animazioni in stop motion create da Harryhausen.
Ma la pellicola che per prima ha fatto vedere le potenzialità di un cinema senza attori in carne e ossa è stata Final Fantasy (tratto da una fortunata serie di videogiochi), uscito nel 2001. Gli attori perfettamente digitalizzati ricordano nelle sembianze alcuni divi di Hollywood. Le animazioni non sono ancora all’altezza e malgrado l’ottima realizzazione grafica il film è un flop al botteghino.
A stretto giro ci pensa Zemeckis a dare nuovo lustro alla recitazione in CGI che nel 2004 si lancia nella sua carriera all-digital. Il suo primo attore feticcio è Tom Hanks protagonista di Polar Express. La tecnica, che negli gli anni si è ormai affinata (ora si chiama performance capture) sembra trovare un suo pubblico di aficionados: 300 milioni di incassi fanno ben sperare e Zemeckis produce altri due film sempre utilizzando la stessa tecnologia: Beowulf e A Christmas Carol. In quest’ultimo Jim Carrey, grazie al capture riesce a interpretare ben 7 personaggi (tra cui i 3 fantasmi del racconto), un qualcosa di inimmaginabile in un film live-action. La faccia di gomma dell’attore americano, fa il resto.
Oggi l’effetto speciale è diventato la norma, una tecnica come le altre. Non più un modo per ingannare lo spettatore, per sconvolgerlo con effetti al di fuori di ogni immaginazione ma un metodo per ottimizzare i costi. La televisione nel particolare, con la crescita esponenziale delle serie è quella che ne ha maggiormente abusato. Questo video mostra come l’effetto oramai sia così sofisticato da essere pressoché indistinguibile dalla realtà. Anche solo uno shot in strada, a una fermata dell’autobus, diventa occasione per usare il chroma key.
Qual sarà dunque il futuro della recitazione? Andremo al cinema a vedere controparti digitali dei nostri attori preferiti, magari “congelati” nel fiore degli anni, come immagina Ari Folman nel suo ultimo film “The Congress? Nasceranno scuole di recitazione esplicitamente per il motion capture, attori addestrati per recitare in assenza di scene, e con la consapevolezza che il loro volto non sia altro che un prototipo, una memoria digitale da applicare alla maschera desiderata. Oppure saranno i videogiochi la nuova Hollywood a cui gli attori aspireranno? Certo i progetti della Disney, che prevedono “installement” degli Avengers fino al 2028, fanno pensare che forse, da qualche parte, esista già una scannerizzazione del buon Robert Downey Jr e dei suoi compagni di avventura. Se davvero si arrivasse al 2028, Iron Man avrebbe la bellezza di 62 anni, non certo l’età adatta per volare, saltare e incassare colpi che stenderebbero un esercito.
Stanilavskij, padre del Metodo sui cui principi venne fondato nel 1947 l’Actors Studio, ammoniva: “lo strumento dell’attore non sia il corpo, ma il proprio universo psichico”. Chissà cosa direbbe adesso vedendo la magia di un uomo scimmia?