Questa intervista nasce da un incontro inaspettato nel corso di Voyager, un’interessante performance tra narrazione teatrale e musica elettronica. Al minimoog Vittorio Nocenzi, fondatore e compositore del Banco del Mutuo Soccorso, formazione che più di ogni altra ha reso la contaminazione tra stili e culture la sua principale cifra stilistica. Da una chiaccherata dopo-concerto nasce l’idea di incontrarsi di nuovo, stavolta per un’intervista a tutto campo.
L’incontro c’è stato, qualche giorno dopo, nello studio-laboratorio di Genzano. Qui Vittorio custodisce la memoria storica del Banco, e lavora quotidianamente e con grande passione allo sviluppo dei progetti artistici del presente. Uno su tutti, la trasposizione musicale dell’Orlando Furioso di Ariosto. Un progetto ambizioso, che rientra in una filosofia di crossover mai abbandonata, nata dalla creatività del figlio Michelangelo, e ultima occasione di una condivisione umana e creativa con Francesco Di Giacomo, voce carismatica del Banco e compagno di sempre.
In una tua intervista, a proposito del Banco, dicevi “Non è mai stato semplicemente una rock band, ma piuttosto un’idea, l’idea di pensare la musica come ‘arte totale'”. Cosa intendi esattamente per “arte totale”, e quali sono le sue peculiarità?
L’arte totale è un’utopia con una lunga storia: le discipline artistiche hanno inevitabilmente un terreno comune di presupposto, il legame che c’è tra i suoni e i colori è stato descritto in pagine meravigliose da Kandinskij. Ad esempio un suono chiaro corrisponde a un colore chiaro, un suono scuro a un colore scuro. Se guardi un quadro e distogli subito lo sguardo ti avrà colpito per primo un colore chiaro, a un ascolto rapido e superficiale ti resteranno nella memoria uditiva i suoni più chiari, non certo quelli più bassi; parliamo di tonalità in musica e anche nei colori – caldi e freddi – è un argomento affascinante che già anticipa il senso dell’arte totale.
Anche il gesto è il prolungamento dell’ascolto, noi uomini abbiamo bisogno di categorie per poter comunicare, ma la realtà non ha questi steccati invalicabili, è un continuum e io sono sempre stato un grande appassionato di pittura, non so disegnare ma studio la storia dell’arte, vado per musei, mi piace la danza, amo il cinema e ho sempre avuto bisogno della musica come passepartout.
In tutta la mia vita ho sempre cercato questa dimensione che amplifica il mio rapporto con la realtà circostante, perché permette di percepire più sfumature, più emozioni, più percorsi. Ecco perché tra scrivere dieci canzoni o un album concept preferirei il secondo, perché mi dà un immaginario più ampio: sono dieci capitoli di uno stesso libro sulla base dei grandi insegnamenti della musica classica per cui una sinfonia è un racconto. La prima volta che scrissi una colonna sonora per un film fu per Il Garofano rosso tratto dal libro di Vittorini, ed ero un po’ spaventato dai limiti di durata imposti dal regista, ma la scoperta fantastica fu che era invece uno spunto alla ricerca e questa nuova concezione del limite mi è rimasta per tutta la vita.
Sono numerosi i tuoi progetti sulla formazione e sulla didattica musicale, penso a MusicOrienta e alla Roma Electric Orchestra, a Banco Factory. Qual è il filo rosso che unisce queste iniziative, e quale pensi possa essere il potenziale della musica nell’evoluzione culturale di un Paese?
Parto da due considerazioni. Se hai avuto più fortuna devi restituire qualcosa, e mi dispiace che la mia generazione si sia poco impegnata in questo ambito.
Poi c’è un’altra componente: non siamo colpevoli materialmente delle macerie che abbiamo intorno, ma sicuramente siamo corresponsabili con le nostre scelte sbagliate, la disattenzione e l’indifferenza, non possiamo dire che non eravamo lì. Siccome almeno a livello personale qualcosa l’abbiamo concluso, dobbiamo restituirlo.
Questo mi fa sentire un po’ moralista: criticare è troppo facile, lo fanno i falliti, abbiamo il dovere di essere cittadini di un tempo diverso e debbo dire che ogni volta che ho dato vita a questi progetti con i giovani mi sono speso tantissimo. Io credo che la differenza tra un artista e gli altri è che il primo ha avuto modo di studiare per questo: l’arte esiste perché c’è qualcuno che la fa, ma soprattutto perché c’è qualcuno che la fruisce, che ha dentro di sé quella capacità di coglierla altrimenti quel linguaggio non emoziona, non colpisce.
La musica commuove perché fa leva su un sentimento che è comune. Invece ho spesso visto un lavoro troppo autoreferenziale, un artista parla di sé e questo va bene, ma non si può fermare tutto a questo, non si può passare dal paternalismo più bieco alla concezione della turris eburnea, la cosa fondamentale è tradurre nel linguaggio quotidiano i linguaggi complessi dell’arte, facendola vivere come terreno comune da abitare. Se io non pensassi che quello che scrivo possa essere ascoltato anche da altri non farei nulla, perché il fruitore è presente fin dall’inizio del processo creativo e allora perché non incontrarlo anche fuori dall’opera per passargli le regole grammaticali della tua arte?
Nel periodo in cui è iniziata l’esperienza del Banco il ruolo della musica nella cultura e nella società italiana ha avuto innegabilmente il ruolo di canalizzare il grande desiderio di sogno, di utopia, di ampliare i registri espressivi e i linguaggi al di fuori del conformismo, della cultura nazionalpopolare. Com’è riuscita, secondo te, la musica ad interpretare queste istanze?
La musica non è una riga o un compasso, non costruisce nessuna architettura in cemento armato, predispone solo la mente, ma è mancato il resto. La musica usciva da un contesto sociale caratterizzato da una grande utopia esistenziale, si voleva cambiare il mondo ricostruendo una realtà diversa. Oggi quel brodo primordiale è stato riscaldato e riscaldato ed è diventato acqua calda; in passato la musica ha fatto la sua parte, ma non fa le leggi, non fa le rivoluzioni sociali, ma quelle culturali che sono alla base di quelle sociali. Si credeva nella forza dell’emancipazione culturale come mezzo di riscatto sociale, la cultura era davvero centrale, oggi il consumismo ha rosicchiato pezzo a pezzo questi ideali, ha tolto fascino all’idea della cultura come propellente del progresso dell’umanità.
Se fai l’insegnante oggi sei considerato un fallito, perché guadagni poco, in questo contesto anche la musica non ha mantenuto le sue promesse perché non le ha mantenute la società. Siamo usciti da esagerazioni che fecero nascere anche cose dolorose come il terrorismo di destra e di sinistra e che lacerarono l’anima di chi credeva in questi ideali, arrivando alla più codarda delle scelte: uccidere uno sconosciuto. Posso capirla come disperazione umana e personale, ma dal punto di vista sociale e culturale è una vigliaccheria.
E’ molto più difficile essere un uomo normale che tutti i giorni deve rimboccarsi le maniche e ricominciare. Purtroppo tutto questo è figlio di una grave crisi culturale, in Italia è un’emergenza: siamo riusciti a mettere d’accordo il pensiero cattolico e quello marxista nel dire che la società è troppo orientata al consumismo, quando due estremi si toccano parlano di un’unica verità. In vent’anni abbiamo cancellato duemila anni di un percorso splendido, speriamo che accada come cantava il grande Fabrizio De André che dal letame nasceranno i fiori, anche se con questo non voglio dire che nella contemporaneità ci sia soltanto immondizia, certo ce n’è un po’ troppa, però.
Il tuo percorso artistico ti ha portato, negli anni, a seguire una particolare ricerca in campo sonoro, con un occhio sempre attento all’evoluzione della tecnologia e ai “nuovi suoni”. Ci puoi parlare di questo aspetto della tua ricerca?
Il timbro del suono equivale alle parole della poesia, quando scrivi devi scrivere il tuo fraseggio, io odio le subordinate, amo le frasi agili, il linguaggio diretto, detesto la retorica e devo stare attento a non caderci perché sono un passionale. La parola deve suonare e questo viene dalla mia esperienza di cantautore: la “a “suona più di una “u “ che è scura e nei passaggi devi stare attento ad usare le vocali aperte, tutta questa attenzione la devi dare ai timbri che sono le tue parole nel fare musica, non puoi limitarti alla melodia e alla sua orecchiabilità, l’orchestrazione è importante quanto la composizione. Se poi arrivi al missaggio e lo sbagli è un dramma: lo odio perché è l’alba dopo una notte di sogni, puoi uccidere il brano più bello della tua vita ritoccando i timbri e i loro volumi.
Ci hai anticipato che stai lavorando alla trasposizione musicale dell’Orlando Furioso. Com’è nato questo progetto e come hai deciso di intraprenderlo?
Nasce da un episodio curioso, mio figlio minore Michelangelo, che ha 24 anni e suona anche lui pianoforte e batteria mi disse: “Sarebbe bello se il Banco rifacesse l’Orlando Furioso, siete partiti dall’Ippogrifo di Astolfo, sarebbe bello se ci tornate” e l’idea mi folgorò, poi lui aveva già scritto dei brani, il tema portante, un tango elettronico. Ne parlai subito a Francesco e l’idea gli piacque tantissimo.
L’Orlando è l’opera più importante del nostro Rinascimento: un periodo per cui siamo noti in tutto il mondo e poi ce n’è soltanto una versione musicata da Vivaldi perché è difficilissimo da musicare. Ci sono moltissime storie che si intrecciano tanto che la sua messa in scena diventa mastodontica, per cui ha probabilmente ha spaventato tutti.
Ma se non è dura (ride) non mi piace, e allora ho accettato l’invito di Michelangelo, insieme a Francesco. E’ l’ultima cosa che decidemmo insieme: facciamo L’Orlando Furioso. E’ molto bello tornare a un concept album per il Banco. Ci appartiene, sono le origini culturali della nostra carriera. Il primo pezzo del Banco su disco fu “In volo”: Da qui messere si domina la valle, ciò che si vede, è. Ma se l’imago è scarna al vostro occhio scendiamo a rimirarla da più in basso e planeremo in un galoppo alato entro il cratere ove gorgoglia il tempo. Era bello tornare sul luogo del primo delitto. Era molto romantica come idea e affascinante come percorso artistico e con Francesco abbiamo voluto regalarci il piacere di lavorare solo come autori. L’ultima riunione di lavoro fatta con Francesco ci ha visti insieme al tavolo nella Sala della Musica, su a casa, a parlare di questo Orlando. Ci siamo lasciati così, per cui è un motivo in più per cui devo assolutamente realizzarlo.
Non so quando lo finirò, al momento ci sono già due ore di musica inedita scritta, ora la sto registrando nei computer, sto scrivendo i testi con Paolo Logli, ma ci vorrà un altro anno per completare il libretto dell’opera, aspetto la selezione delle voci e delle tonalità per l’orchestrazione definitiva.
Quello che ho in testa è un grande crossover: ci sarà il rock, ma anche la musica popolare. il blues, musica classica, operistica italiana, elettronica con “Boosta” dei Subsonica con cui sto collaborando, sarà ancora una volta un’opera totale.
Poi bisognerà pensare alla forma che prenderà: uno spettacolo? un film? dovrà essere un’opera duttile, mi piacerebbe progettarla in modo che sia pronta per essere usata a 360 gradi, anche per un’opera concertata.
Immagino anche scenografie multimediali da coniugare con quest’opera del passato che è attualissima: una guerra tra saraceni e cristiani, l’ennesimo conflitto dell’occidente con l’Islam. Ariosto risponde a questo conflitto in modo civilissimo e pacifista: lui non è arbitro, ma solo spettatore, fa scontrare i “grandi campioni” dei due schieramenti che vengono però scompaginati dall’amore che serpeggia da entrambe le parti a testimoniare ancora una volta che siamo tutti uomini in un richiamo al rispetto reciproco per le due civiltà.
ph. Andrea Santilli