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ZAHA HADID (1950-2016).
Tra spazio e forma

E’ difficile separare l’architettura di Zaha Hadid dalla sua personalità. «Non faccio piccoli e graziosi edifici», soleva ripetere. La ricorderemo probabilmente non come una diva o una «archistar» secondo il clichet in voga, ma come una donna radicale, forte, decisa, in grado di perseguire la sua visione nonostante i molti ostacoli che si trovava sulla strada. Come capita ai grandi architetti, i suoi edifici saranno i suoi monumenti duraturi.

Era nata a Baghdad nel 1950, aveva studiato matematica all’American University di Beirut prima di iniziare il suo percorso nell’architettura nel 1972 a Londra.
Per molti anni i suoi progetti sono rimasti su carta, nella loro immaginifica visione di un futuro possibile. All’interno di una concezione nuova della metropoli, in cui architettura e politica non possono che andare insieme.
Il 1979 è l’anno di fondazione del suo studio – Zaha Hadid Architects – lì guadagnandosi un’ottima reputazione in tutto il mondo con i suoi progetti innovativi compresi il Peak di Hong Kong (1983) Kurfürstendamm 70 a Berlino (1986) e la Cardiff Bay opera house in Galles (1994). Con il suo collega Patrik Schumacher riesce a far dialogare architettura, paesaggio e geologia, che la sua pratica integra con l’uso di tecnologie innovative.

La sua prima grande commessa è la Vitra Fire Station a Weil am rhein in Germania (1993). Quasi un decennio dopo il devastante incendio nel 1981, il campus Vitra viene rinnovato. Il progetto scava nel linguaggio teorico costruttivista e trova nuove relazioni tra spazio e forma, rappresenta un “movimento congelato”. Una vivida, lucida espressione di tensioni necessarie a rimanere in allerta, dentro l’azione richiesta. I muri sembrano intrecciarsi, creando pareti “mobili”.

Un altro suo progetto di particolare rilievo è indubbiamente il MAXXI di Roma, il museo nazionale italiano di arte del XXI secolo (2009), un edificio che con le sue rampe sinuose cambia radicalmente il volto del quartiere Flaminio e racconta una fase nuova della Città Eterna. Nonostante le polemiche che accompagnano la sua realizzazione, di fatto si tratta della prima struttura museale in Italia interamente dedicata all’architettura. Secondo il New York Times l’edificio “scuote la città come un rombo di tuono, riportandola nel presente” . Troppo costoso, dicono in molti, 150 milioni di euro complessivi. Per altri, un “risveglio” per una città che per anni ha guardato solo al proprio passato.

Un altra pietra miliare nella Hadid è Il London Acquatics Centre, costruito per i giochi olimpici del 2012. Si ispira alle geometrie fluide di acqua in movimento, creando spazi e un ambiente circostante che riflettono i paesaggi lungo il fiume del Parco Olimpico. Un tetto ondulato spazia da terra come un’onda, che racchiude le piscine del Centro con un gesto unificante di fluidità , che descrive il volume delle piscine e delle immersioni .

Zaha Hadid verrà ricordata anche per altri progetti, solo per citarne alcuni l’Heydar Aliyev centre a Baku (2013) e uno stadio per la Coppa del Mondo di calcio in Qatar nel 2022. Ognuno di questi progetti illustra la sua ricerca di uno spazio complesso, ma fluido. Edifici come il Rosenthal centre per l’arte contemporanea a Cincinnati (2003) e il Guangzhou opera house in China (2010) sono stati salutati come architetture che trasformano la nostra idea di futuro con concetti spaziali visionari definiti da design, materiali e processi di costruzione avanzati.

Nel 2004, Zaha Hadid è stata la prima donna ad essere insignita del premio Pritzker per l’architettura, ha vinto due volte di seguito il riconoscimento britannico più prestigioso per l’architettura, il RIBA Stirling prize: nel 2010 per il museo MAXXI a Roma, il distillato di anni di sperimentazione, un progetto maturo che veicola una forza tranquilla sottesa alla complessità della sua forma e organizzazione; e nel 2011 per l’Evelyn Grace academy, dal design unico, abilmente inserito in uno spazio estremamente ristretto.

In sostanza,  Zaha Hadid ha costantemente dialogato con la complessità dei tempi moderni. Rifuggendo dalla sintesi “brutalista”, si è fatta portatrice nel suo concetto di architettura di Symptoms of a repressed impurity.
In febbraio, parlando su BBC Radio, ha detto: “Non mi sento davvero parte dell’establishment. Non sono fuori, diciamo che sono al confine, sto penzolando lì. In un certo senso mi piace abbastanza. Non sono contro l’establishment di per sé. Voglio solo fare quel che faccio, ecco tutto”.

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